Domani sera. Geoffrey Kondogbia tornerà in Italia, proprio a San Siro, per sfidare l'Atalanta in Champions. Il francese ha parlato alla Gazzetta dello Sport ricordando anche la parentesi all'Inter.

Cosa conserva del suo biennio interista?
"Qualche amico, come Brozo, Samir o Ranocchia, il piacere di aver giocato in un grande club e tanta esperienza: all’Inter sono cresciuto come calciatore e come uomo. Il secondo è stato difficile, tanti cambi in panchina con De Boer, Vecchi e Pioli, un ambiente complicato, ma l’esperienza mi è servita".

Quando lei è andato via Spalletti le ha mandato un messaggio.
"Si, una foto con dedica. Diceva più o meno ‘In bocca al lupo, ma te ne pentirai’".

E invece…
"No. Ma il suo era un gesto di affetto fatto in modo scherzoso. Io mi trovavo benissimo con Spalletti e l’allenatore voleva che restassi, però io avevo già preso la mia decisione. Mi piaceva il progetto del Valencia, venivano da due anni complicati, credevo che le cose potessero cambiare e finora grazie a Dio è andata bene: abbiamo vinto un titolo dopo 11 anni e in Liga siamo arrivati due volte quarti".

È difficile giocare in Italia?
"Diciamo che è molto diverso rispetto al farlo qui. In Spagna si da più importanza al gioco, anche chi lotta per non retrocedere prova sempre a proporre e a tener palla. In Italia è tutto più chiuso e più fisico. Da voi vige la mentalità del ‘Chi non sbaglia vince’ qui quella del ‘Chi più ci prova vince’. Io sono per l’equilibrio: a volte si esagera in Italia, a volte qui. Ogni stile ha pregi e difetti e noi giocatori ci troviamo meglio o peggio da una parte o dall’altra, penso a Banega, a Immobile, a Luis Alberto oltre a me stesso, gli esempi sono tanti".

Parliamo di razzismo. Esperienza personale?
"Personalmente qui in Spagna non ho sofferto nulla, in Italia sì, diversi episodi. Però non si possono trarre conclusioni definitive: magari qualcuno le dice che qui gli è successo qualcosa e in Italia no".

Pensieri?
"Allora ero più giovane, oggi se mi dovesse capitare non discuterei con nessuno: esco dal campo e basta. Anche se è una partita di Champions League o una sfida importante di Liga. È il momento di farla finita con i lamenti. Si continua a ripetere che dobbiamo far qualcosa, ma non si fa nulla. Ed è una questione di rispetto per sé stessi, le vittime del razzismo devono rispettarsi. Se sei in uno stadio dove la gente non ti vuole, te ne vai e discorso chiuso. Non giochi e a posto così, che quelli che non ti vogliono vedere giochino tra loro. Queste cose ci sono sempre state e bisogna smettere di lamentarsi. Noi calciatori non siamo le uniche persone vittime dei razzisti, nella vita altri sono trattati molto peggio di noi. Abbiamo una cassa di risonanza, ma nessuno l’ascolta. E allora te ne vai e basta. È semplice".

E se viene squalificato?
"Una sanzione non è certo la morte. Te la becchi e vai avanti: se c’è un’azione comune poi cosa fanno? Multano o squalificano tutti quelli che abbandonano il campo? Bisogna agire, le parole non servono. Dobbiamo dimostrare che siamo uomini tra gli uomini, se qualcuno tra i tuoi simili non ti vuole te ne vai. È solo una partita di calcio, non succede niente".

Sezione: Copertina / Data: Mar 18 febbraio 2020 alle 08:48 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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