Lunga intervista della Gazzetta dello Sport a Zlatan Ibrahimovic, dirigente del Milan e grande ex anche di Inter e Juventus. "Sono qui per aiutare. La prima volta il Milan mi ha dato la felicità, la seconda l’amore. Adesso sono qui per restituire. E per tornare a vincere", dice lo svedese.
Ibra com’è la vita da dirigente, ora che è partner di RedBird e consulente Milan?
"Ho già i capelli grigi… Sono arrivato con la coda, ora sono così, tra un po’ sarò pelato…".
Ma ci spiega esattamente cosa fa?
"Il mio ruolo non è cambiato, è sempre lo stesso, io rappresento la proprietà. L’anno scorso facevo più di quello che dovevo fare, non me l’ha chiesto nessuno, ero io che mi sono sentito di farlo, però non mi piaceva, perché se non posso essere me stesso non sto bene. Non voglio essere ingabbiato e infatti non ho voluto avere un ufficio. Vado io da quelli con cui ho bisogno di parlare".
Leao?
"A Torino ero nello spogliatoio. Erano tutti arrabbiati, tutti, pure Allegri, perché si poteva vincere. E anche Leao. Ricordiamoci che durante la preparazione era il migliore, poi è stato fuori due mesi, ora deve tornare in forma. Chiaro che ci aspettiamo la magia, perché Leao è magia! Chiaro che parleremo sempre di lui, perché è uno dei giocatori più forti al mondo. L’ho visto ragazzino, adesso ha due figli: è un percorso. Io sono diventato maturo a 28 anni. E comunque quando abbiamo vinto lo scudetto posso dire che lo ha vinto da solo...".
Ma come? C’era lei.
"Non prendo crediti, voglio darli agli altri. Quell’anno a inizio stagione ho chiesto: quanti hanno vinto qualcosa? Hanno alzato la mano in uno, forse due. E quanti hanno giocato in Champions? Di nuovo, uno-due. Era un gruppo che aveva bisogno di un giocatore alfa, un leader. Era tutto un “Ibra andiamo a destra o a sinistra?”. Quando perdevamo dicevo “mandate solo me a parlare” così lasciavamo la squadra tranquilla: per me era come fare colazione. È nato un gruppo che ha cominciato a volare. Quando abbiamo vinto lo scudetto li ho visti piangere, è stata la soddisfazione più bella. Ma io lo avevo detto subito il primo giorno".
Puntare al quarto posto è poco?
"Il Dna del Milan è vincere, soprattutto in Europa, e là dobbiamo tornare. Nessuno vuole cambiare il Milan, la sua cultura. Anche perché le do una regola: nessuno cambia il Milan, è il Milan che cambia te. A Milanello senti profumo di vittoria, dopo che sei stato lì non resti lo stesso. A Milanello, dal cuoco al giardiniere, tutti fanno in modo che ci siano le condizioni per fare il meglio".
Delle avversarie che dice? Napoli, Inter, Juve?
"Non guardo gli altri, ma non per arroganza, perché se dipendo dagli altri vuol dire che non sono abbastanza forte. Devo diventare forte io e gli altri devono guardare me".
Allora mi parli almeno di Chivu.
"Lo conosco dai tempi dell’Ajax. Era una squadra di talenti, lui era il più maturo. Avanti mentalmente e come persona. È stato un campione, come allenatore è presto per giudicare, gli mando un in bocca al lupo ma non deve vincere...".
La parola scudetto non me la pronuncia?
"Se ci credo? Sì, dobbiamo crederci tutti. Ma è un processo, è un lavoro di team".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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