“Una grande forza fisica e degli strappi che ti tagliano le gambe”, dice Dario Dainelli dell’Inter nella zona mista di San Siro, parlando dall’alto del suo metro e 91. Stazza e corsa. Anni orsono, c’era l’Inter degli orchi, quella che ti spaventava solo a vederla in campo, non appena sul prato poggiavano i propri piedoni Maicon, Ibrahimovic, Vieira e compagnia. Non si dica che l’Inter ha un calcio fisico nella sua identità, non si parli di astratta identità. È vero, però, che anche questa squadra fa spavento alla vista, e Spalletti lo sa. La stessa ribalta di Santon, che pare aver rubato il posto al lillipuziano Nagatomo, dimostra che Spalletti lo sa, e ci marcia pure. D’Ambrosio, col suo fisico da aspirante culturista, neanche a parlarne. In mezzo, Miranda col suo metro e 86 è il più basso, e a vedere Skriniar e Ranocchia insieme ieri ci si sentiva un po’ tutti in deficit di altezza. E ancora, Gagliardini, Vecino, Perisic e chi più ne ha più ne metta. Eppure, ieri si giocava contro un’altra squadra di corazzieri, e il centrocampo nerazzurro, menomato del bergamasco e dell’ex viola, ha perso in centimetri e guadagnato in palleggio e qualità. Parliamo dunque di corsa, e qui occorre sottolineare come nessuno in Serie A vanti due podisti sulle fasce del calibro di Candreva e Perisic. La loro esuberanza negli spazi è impressionante, ma guai ad ingannarsi, ché i due sanno fare magie col pallone ad alta velocità come pochi. In questo fondamentale, peraltro, il romano eccelle ancor di più del compagno, e la sua tecnica di primo livello resta un dato mai sottolineato a sufficienza, persi come sono stati in molti a lagnarsi dei suoi cross sbagliati, come se un giocatore che crea un numero di occasioni senza eguali in Europa fosse perciò costretto a trovare sempre una testa, o una gamba, che premi il suo altruismo: la corsa forsennata di Skriniar, simbolo di un atteggiamento collettivo che ha dello straripante, ringrazia. È un’Inter di corridori coi piedi buoni. È un’Inter di giganti, come quelli del mito, che spostarono e misero l’una sopra l’altra tre montagne, per poter arrivare a dar battaglia agli dei dell’Olimpo. Per loro finì male, ma qui di Olimpo e divinità non ce n’è. Si è arrivati lassù, e ora tocca misurarsi con la prova massima, quella più bella e difficile: chi ha comandato negli ultimi sei anni può ragionevolmente aver paura, e questa è già un’enorme soddisfazione.
Il Chievo, per la verità, ha subito il primo gol come fosse un cazzotto, o l’ormai proverbiale spallata di Skriniar. La squadra di Maran, che ci ha abituato a un tatticismo militaresco, tanto è rigoroso, ha sbagliato a lasciare progressivamente sguarnite le corsie laterali, presa com’era a cercar di frenare il sapiente palleggio a due tocchi che i nerazzurri sviluppavano in mezzo. Un Joao Mario inizialmente sottotono, ma cresciuto con l’andare dei minuti, ha iniettato ulteriore tecnica in un centrocampo che ha trovato in Borja Valero il suo leader, e in Brozovic la Speranza: se il croato è finalmente se stesso, e se Spalletti riproporrà con la Juve la consueta formazione col ritorno di Gagliardini e Vecino, siamo pronti a scommettere che al tecnico di Certaldo farà male il petto a lasciar fuori Brozo. La giornata di Perisic, dal canto suo, passerà senz’altro agli annali, non fosse altro che per l’inedita tripletta e una costante, imbarazzante e spensierata superiorità. A un certo punto, ad esempio, il Chievo aveva trovato un mezzo spiraglio, e stava provando a ripartire sul suo out di destra; ma eccolo, Ivan il terribile, che torna a grandi falcate e ristabilisce in un amen la parità numerica. Lo stesso Icardi, che ha mille altre doti migliori della progressione palla al piede, riesce ad andare in gol proprio su questo fondamentale grazie all’imbeccata di Brozovic, dopo che il capitano aveva tentato in modo analogo poco prima. L’impressione, appunto, è che il tanto agitato spauracchio del calo cui quest’Inter avrebbe dovuto inevitabilmente andare incontro prima o poi sia tanto difficile da applicarsi a una squadra che ancora intorno al 90’ corre e sprinta senza apparente fatica, cerca l’ennesimo gol e non accetta più di abbandonarsi a una gestione che calmieri la partita, rischiando di soffrire i patemi dell’inferno che ti si palesano davanti quando, non sapendo gestire a ridosso della tua area, finisci per far riaprire la gara all’avversario. Menzione speciale, com’è ovvio, per Ranocchia, che è ritornato a giocare, e a giocarsela, approfittando dell’impeccabile funzionamento collettivo: ammettiamolo, un’ipotetica rinascita del centralone umbro, oltre a costituire l’ennesimo capolavoro di Spalletti, scalderebbe il cuore a tanti. Le doti non gli son mai mancate, la testa ha probabilmente sofferto, ma questo collettivo e razionale entusiasmo, che è ben diverso dall’euforia, è possibile che contagi anche lui. L’entusiasmo, che non è vana euforia, è anche il miglior modo per approcciarsi all’Appuntamento. Occorre serietà (e c’è), cura (scommettiamo che ci sarà), ma senza entusiasmo è tutto insipido, e spesso sterile. Non c’era, insomma, modo migliore per arrivarci, ora che l’Inter si è presa l’Olimpo. Chi scrive, in realtà, voleva concentrarsi solo su Inter-Chievo, senza che la coda dell’occhio cadesse su sabato prossimo; non ci è riuscito. Perdonatelo, se siete messi come lui.
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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