Alle 4.49 di ieri 20 marzo è iniziata la primavera, nello stesso giorno di quella che ormai da anni è la giornata internazionale della felicità. Eppure a guardarsi intorno tutto sembra fuorché felice e quella che è iniziata ieri sembra essere la primavera meno primavera degli ultimi settantacinque anni. Un’emergenza tanto clamorosa non si vedeva per l’appunto dal dopoguerra, persino gli anni di piombo sembrano essere stati vissuti con più libertà e meno paura perché spesso, si sa, poter dare un volto al pericolo è già più di qualcosa. Oggi no, il nemico non ha volto e nell’epoca in cui il focolaio domestico è puro astrattismo, un nemico dal volto inesistente ci costringe a ri-scoprirlo. Una riscoperta senz’altro traumatica in cui ci si ritrova ad essere costretti ad un’autonoma misura cautelare di coercizione domiciliare, in una situazione in cui a mancare però è il reato. E allora sembra davvero di fare un salto indietro nel tempo, quando in assenza di libertà si era costretti a vivere nascosti come pipistrelli in pieno giorno. Eppure qui tutto si consuma alla luce del sole, a consumarsi è la vita sotto un sole che non riscalda più alla luce di numeri che ora fanno davvero paura. Nelle ultime ventiquattro ore si è superata la soglia dei 600 morti, ormai quella quarantena obbligata e quelle mura domestiche tanto strette iniziano ad apparire davvero l’unico e solo posto sicuro, quasi divertente, a patto che non si accendano i telegiornali. Lo sanno gli italiani, tutti, compresi quelli per adozione che come Lukaku lontano dalla loro quotidianità fatta di calcio non sanno stare. Ma il calcio è pur sempre uno sport e un gioco, come qualcun altro prima di me ha affermato, la cosa più importante tra quelle meno importanti della nostra esistenza e se di esistenza parliamo la sopravvivenza è necessaria. Adattarsi per sopravvivere e tornare a vivere, persino se quella sopravvivenza è fatta di assenze e vuoti. Vuoti come gli spalti delle ultime partite giocate, come le strade delle città, come il vuoto in cui chi emana i comunicati cercando di normalizzare un percorso ormai andato a farsi benedire brancola. Il calcio precipita, come l’economia, e la perdita di oltre 700 milioni per il sistema calcio italiano inizia a prefigurarsi come inevitabile. Telefonate, videocall, assemblee straordinarie, comunicati, il tutto alla ricerca disperata di risposte ballerine, in un’atmosfera quasi da quadro cubista, di quelli di Pablo Picasso per intenderci. Il leit motiv è lo stesso da giorni: incertezza. La domanda cambia di giorno in giorno, e se fino a ieri ripartire a maggio sembrava possibile, oggi non è più così certo. Tristezza, angoscia, inquietudine e aberrante sensazione di non riuscire a ricomporre i tasselli di una normalità che ad oggi sembra lontana e impossibile da ripristinare. 

Cosa ci resta dunque da sperare? Che tutto cessi. Eppure la fisica dice che nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma. Una trasformazione che mai ci riporterà all’anno zero, o meglio a prima del paziente zero, ma il paziente zero c’è stato e adesso da ri-edificare c’è un mondo intero. E per farlo, forse, dovremmo prendere esempio dal nostro più grande nemico attuale: il virus, e comportarci come tale, adattandoci ad una situazione che non sembra appartenerci. Non è una situazione facile, come ha affermato De Vrij nella diretta social di ieri, ma bisogna adattarsi alle circostanze, in attesa di vincere una partita che poco ha a che fare col calcio. Il difensore olandese parla con genuina semplicità, la stessa che lo contraddistingue quando fuori dalla Pinetina si ferma a firmare autografi e scattare foto con i tifosi ai quali dice di dovere quasi tutto. “Passo le mie giornate allenandomi due volte, leggendo e guardando la tv. Mi riposo, leggo molto”. Si gode casa, come il resto dei compagni e dei colleghi, come Barella che per la prima volta dopo anni è riuscito a ‘festeggiare’ a casa il compleanno della moglie, o come Sanchez che si gode la natura, Candreva e Lautaro che si allenano con le compagne, D’Ambrosio coccola i bambini… Tutti rigidamente a casa, a Milano. Perché di andar via non ne ha voluto saperne nessuno, tutti rimasti a supportare la gran Milan che tanto gli ha dato e tanto dà ad ognuno di loro e di noi. La stessa Milano che oggi veder vuota e silenziosa fa un po’ specie, quasi una sensazione di disagio, di sicuro tristezza. Eppure nei silenzi delle strade limitrofe a San Siro e non solo, qualcosa da riscoprire c’è. Il sacrificio di chi, come a Lukaku e De Vrij manca il calcio ma mette a tacere la nostalgia e fa tesoro di una straordinaria quotidianità che molto spesso non viene apprezzata fino in fondo. Perché come dice De Vrij, “scendere in campo è un'esperienza bellissima, ma adesso restiamo concentrati su altro” e quell’altro può senza dubbio essere tutto ciò che il più delle volte non si ha tempo di osservare, anche sia solo la felicità di stare bene. 

“Torneremo a giocare e a regalare gioie”, intanto oggi restiamo a casa, oggi e sempre insieme come una famiglia, a goderci quella strana infelicità che a guardarla bene nasconde un’insolita, inusuale e straordinaria felicità di essere al sicuro. E se oggi sentiamo un po’ tutti l’assenza di tutti, domani avremo forse capito che farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza e mentre la primavera meno sentita di sempre nasce, ci mettiamo alle spalle questa giornata mondiale di (in)felicità ma speranzosi di poterne vivere presto altre. Senza parentesi.

Sezione: Editoriale / Data: Sab 21 marzo 2020 alle 00:00
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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