Lunga intervista di Diego Godin a Dazn. L'uruguaiano ha parlato del suo approccio al mondo Inter, con riferimenti fisiologici al suo passato nell'Atletico. E poi Simeone, Conte, la Champions, il derby.
Vedi somiglianze tra questa Inter e il tuo Atletico Madrid? A livello di gruppo, di anima...
“Sì. Per prima cosa, abbiamo una base importante e solida rappresentata dall'allenatore. Credo sia fondamentale, è la pietra sulla quale si basa tutto. A Madrid c'era Simeone, qui c'è Conte che ha una grande personalità ed è in grado di supportare il peso della squadra, della tifoseria e di trasformare tutto in energia positiva. E poi è uno che crede nel lavoro, lo sappiamo bene: nel calcio devi lavorare, essere intenso e credere in quello che fai. Il parallelismo tra quell'Atletico e l'Inter esiste. Qui siamo un gruppo nuovo, nonostante in molti siano qui da tempo. Ne sono arrivati diversi di nuovi giocatori, però effettivamente vedo la stessa unione, questa energia positiva, questa complicità, questo buon ambiente nello spogliatoio. Credo sia fondamentale. E poi l'entusiasmo della gente: è una cosa positiva. C'è un entusiasmo naturale per tutto quel che si sta costruendo e noi dobbiamo sfruttarlo questo entusiasmo. Noi da dentro il campo, trasmettendo questa energia positiva alla gente. E che la gente ricambi, nei momenti positivi e in quelli negativi, che ci saranno perché la stagione è lunga e le partite sono tante. E creo che così, stando tutti uniti, si possano ottenere ottimi risultati”.
Sul paragone tra Simeone e Conte.
“Sì, si assomigliano. Osservandoli, la prima cosa che noti è l'intensità e la passione con le quali vivono ogni allenamento. Credo sia una componente essenziale, si vede, si trasmette. E poi come vivono le partite. Lo fanno allo stesso modo: la sentono, ogni istante. E negli allenamenti è la stessa cosa. E poi il fatto che trasmettano e credano moltissimo nelle loro idee di lavoro, la voglia di avanzare il gioco per cercare di vincere. Ovviamente, la mentalità vincente: una mentalità da allenatore che sicuramente è innata. Che li ha caratterizzati quando erano giocatori e che li caratterizza oggi da allenatori. Questa credo sia una cosa in comune tra i due”.
Riguardando il gol al Camp Nou decisivo per il titolo spagnolo.
“Sono momenti indimenticabili. Lo dico sempre: io ricordo quasi ogni istante, la palla che sale, che mi arriva incontro, il movimento che faccio, quando la colpisco. E nel momento in cui vedi la palla che entra in porta... Sono istanti che non si possono descrivere a parole. Sei pieno di allegria. E poi è felicità totale, anche rabbia, allegria, il liberare una tensione che ci portavamo dietro, perché in un solo gol ci sono 10 mesi di lavoro, 10 mesi di sacrificio per giocarsi una Liga 'partita dopo partita', per citare la famosa frase del Cholo”.
Sul derby di Milano.
“È un derby, una classica. Partite così si vivono sempre in maniera speciale. So cosa significa un Clasico per il tifoso, per la gente. E quindi, di conseguenza, uno deve prepararlo, viverlo e capirlo come lo vive la gente. Poi puoi vincere o perdere, ma la gente vuole sentirsi orgogliosa dei suoi giocatori in campo. E poi la pressione: la verità p che gestisco certe situazioni diversamente, per l'esperienza, per averle già vissute. Però l'ansia, la voglia, la tensione nello stomaco tante volte prima di una partita così importante continuo a sentirle. Continuo ad avere lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di far bene, altrimenti non sarei qui”.
Sono partite importantissime, dal pronostico sempre 50-50. Personalmente, come reagisci alla sconfitta?
“In certe occasioni non è un giorno o cinque o due. Ognuno personalmente la assimila in maniera differente. Chiaramente perdere una finale di Champions non è come perdere una partita di campionato. Perdere una finale di Champions ti dà una sensazione di vuoto totale. Una sensazione che ti fa dire: 'Siamo arrivati fino a qui e non siamo riusciti a vincere'. Perché tu arrivi in finale per vincere, non per partecipare. E io ho sentito queste sensazioni dopo le due finali perse. Soprattutto la seconda. La prima fu diversa: avevamo vinto la Liga, ci rimase una sensazione amara, dolorosa certo, ma ci riprendemmo molto più velocemente. La seconda, invece, fu più dura proprio perché era la seconda, pensavamo: 'Stavolta la coppa è nostra'. Però poi siamo tornati, siamo tornati al vertice, a competere, a vincere. Ed è questione di mentalità, di lavoro e, come dicevo prima, di avere un allenatore con mentalità positiva, che ti spinga. Di avere un gruppo nello spogliatoio allegro, positivo, che abbia fame di lottare e vincere. E di avere l'appoggio dei tifosi: è fondamentale. Se la tua gente, che è il motore del club, non ti sostiene, non ti appoggia, non ti spinge, non ti stimola, non pretende – perché deve pretendere da te – è molto difficile ottenere cose importanti in Europa. Ma credo che l'Inter abbia tutto questo”.
Sugli inizi della sua carriera.
“Ho cominciato a giocare a 5 anni, nella mia città. Poi a 15 anni sono andato in una squadra professionistica di Montevideo, in una squadra che mi fece fare un provino. Iniziai da attaccante/centrocampista offensivo. Giocavo poco, in due anni pochissimo, mi mancava la mia famiglia, la mia città. Io vengo da un posto fuori la Capitale, e volevo smettere, lasciare il calcio. Quindi mi svincolarono e provai in un'altra squadra, dove rimasi. Cominciai a giocare, feci un click mentale. E poi ovviamente mi aiutò il cambio di ruolo in campo. In una partita buttano fuori il nostro mediano: mi spostai mediano e giocai bene. La partita successiva giocai titolare, da mediano. Poi in una partita espellono un mio compagno che era difensore centrale. Gioco quasi un tempo da difensore centrale, molto bene. E poi non avevamo altri difensori centrali, la rosa era corta. E allora l'allenatore mi disse di continuare lì, che ero portato, rapido, capivo in anticipo le situazioni. Che conducevo bene la palla, ma io non ero del tutto convinto, però guardai il lato positivo della cosa. L'allenatore della prima squadra iniziò a visionarmi, a seguirmi e, 4 mesi dopo, mi allenavo con i grandi”.
Su Cristiano Ronaldo.
“Ronaldo all'inizio ti affrontava, puntava molto di più nell'uno contro uno. Ora negli ultimi anni è diventato un attaccante molto più finalizzatore. Arriva molto bene in area avversaria. Ha un innato spirito competitivo, una voglia di vincere e fare male all'avversario. E arriva sempre in posti importanti, dove sa che lui può segnare molto”.
Su Messi.
“Messi è un giocatore molto più imprevedibile di Cristiano Ronaldo. Non sai mai da che parte andrà: destra, sinistra... Non sai mai come marcarlo davvero, non puoi dire: 'Faccio così e lo annullo'. No. Altrimenti in questi anni non avrebbe segnato così tanto”.
Su Luis Suarez.
“Luis è un 9 puro, impressionante. Con grande capacità di segnare e con un'enorme intelligenza emozionale”.
Il più complicato da affrontare?
“Difficile da dire, non puoi sceglierne uno, ognuno di loro ha tutto per fare bene. Non scelgo, sono tre troppo forti”.
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Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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