Intervistato dal Corriere dello Sport, Leonardo Bonucci è tornato sui motivi dell'addio alla Juventus, sul ritorno a Torino e anche sull'esordio in A con la maglia dell'Inter.
Le è costato, quando è andato via, non sentirsi più dentro la BBC?
"Sicuramente. Quando vai via da una certezza lasci le amicizie, lasci i rapporti personali, lasci delle sicurezze. Alla Juventus ero abituato ad allenarmi tutti i giorni con campioni e con giovani di alta qualità. Oltre a Barzagli e a Chiellini sul campo trovavo Benatia, un gran giocatore, o Rugani che è un giovane pronto a ricoprire ruoli importanti nelle migliori difese. Lasciare tutto questo è stata una scelta difficile, presa in un momento di rabbia. Questa esperienza mi ha insegnato che nei momenti di rabbia l’istinto ci può far fare delle scelte sbagliate, o comunque non quelle che avremmo fatto a mente lucida".
Vogliamo cogliere questa occasione per spiegare quel momento di rabbia da cosa è dipeso?
"Erano successe delle cose, durante gli ultimi quattro mesi di Juventus uno punto zero, che mi avevano toccato a livello di orgoglio, a livello personale, intimo e non sono stato abbastanza bravo e farmele scivolare addosso. Poi, con il passare del tempo e guardandomi da fuori, sono riuscito a capire che lasciare la Juventus non era stata la scelta giusta. Perché solo qui e con questa maglia addosso riesco ad esprimere le mie potenzialità sul campo e fuori. Insieme al presidente Agnelli e al mio procuratore ho avuto la fortuna di poter costruire questo ritorno e mi sono reso conto che era l’unica cosa che volevo davvero".
Che cosa è la Juventus? È solo una squadra di calcio?
"No, la Juventus è una famiglia e lo si vede da come posso parlare schiettamente anche dei momenti difficili. Quando sono tornato sono stato accolto come se non fossi mai andato via. All’interno della Juventus tutti, dal presidente al magazziniere, ti fanno sentire a casa ed è quello di cui più avevo bisogno. Nella Juve c’è rigore, serietà. E c’è una mentalità con la quale si punta tutti verso lo stesso obiettivo. Credo che questo sia il grande segreto della Juventus che è entrata nella storia, che vince e continuerà a vincere".
Lei sente che quest’anno, con l’arrivo di Ronaldo e il suo ritorno, la Juventus sia nella condizione di porsi l’obiettivo di vincere la Champions?
"A prescindere dall’arrivo mio e di Cristiano, la società ha costituito una rosa importante per poter combattere contro le due, tre grandi squadre a livello europeo e poter arrivare a realizzare quel sogno. E’ ovvio che avere Cristiano Ronaldo nella squadra questo sogno lo rende più realistico e più credibile. Però chi gioca al calcio sa che è anche una questione di fortuna, di spirito di sacrificio e sicuramente di lavoro di squadra. Così abbiamo vinto sette scudetti, quattro volte la Coppa Italia e siamo arrivati fino alle due finali di Berlino e Cardiff. Ora dobbiamo proiettare noi stessi verso il sogno di portare a casa la Champions, dopo vent’anni".
Chi è l’attaccante più rognoso contro cui ha giocato? Quello che le ha dato più fastidio, più difficile da marcare?
"Cristiano, senza dubbio. Quando ci abbiamo giocato contro, lo dimostrano i numeri, ha messo sempre in difficoltà la nostra difesa. Oppure, quando giocava nel Milan, Ibrahimovic, difficile da marcare perché possente, tecnico, spigoloso. Ce ne sono stati tanti nell’arco della mia carriera: fortunatamente sono dieci anni quasi che gioco in serie A. Le posso citare Eto’o, Milito, Icardi. I grandi nomi sono sempre grandi attaccanti, difficili da marcare".
Come ha cominciato a giocare a calcio da bambino?
"Dentro casa, nel corridoio, con mio fratello. Nel palazzo dove abitavamo avevamo un corridoio lungo una decina di metri e ci sfidavamo uno contro uno. Io sono più piccolo di mio fratello di quasi cinque anni. A lui piaceva vincere facile. Poi per strada, nell’oratorio di quartiere. Ho fatto le giovanili nella società dilettantistica della mia città che si chiama Pianoscarano, poi Viterbese all’età di dodici anni e dopo, a diciassette, sono passato all’Inter".
Non tutti ricordano che lei ha esordito in A nell’Inter. Come è stato quel giorno, il giorno dell’esordio?
"Diciamo che in quel momento, quando ho tolto la casacca che portavo sopra la maglia nerazzurra io non ho capito più niente. Eravamo a Cagliari, rammento che faceva un gran caldo. Non mi ricordo invece quello che mi disse l’allenatore, Roberto Mancini. Pensai soltanto ad entrare e a giocare più facile possibile quei quattro cinque palloni che ho toccato. Però è stata una sensazione incredibile: una parte del sogno che avevo da bambino cominciava a realizzarsi".
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Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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