Massima serenità. E' quella che traspare dalle dichiarazioni di Claudio Ranieri, a pochi giorni dal suo primo derby della Madunina, lui che a Roma ne ha vissuti tanti e ne ha vinti moltissimi. Il tecnico nerazzurro è stato ospite un'ora nella sala Albertini del Corriere della Sera e ha parlato un po' di tutto, da aspetti personali e professionali che lo riguardano, alla stracittadina nella Capitale e al momento attuale dell'Inter. Ecco l'intervista rilasciata ai colleghi Alessandro Bocci e Fabio Monti.
Lei che è nato a Roma e vissuto a Londra e Madrid, come si trova a Milano?
«Per ora mi sono fatto un'idea superficiale perché faccio il pendolare con Appiano Gentile. Però è la città che mi aspettavo: concreta ed efficiente. Si vede che c'è voglia di fare e di lavorare. E poi c'è la gente, gli interisti, ai quali stiamo cercando di riscaldare il cuore».
Adesso, dopo le difficoltà iniziali, ci state riuscendo.
«Dovevamo tornare ad essere credibili. Ritrovare il senso di appartenenza. Ma ancora non abbiamo fatto niente. Abbiamo ricominciato a vincere, ma sul piano del gioco andiamo avanti a sprazzi. L'Inter ha ampi margini di miglioramento».
Lei di derby ne ha giocati tanti e vinti quattro di fila a Roma: qual è il segreto per preparare bene una partita così atipica?«Il derby, sotto certi aspetti, è la partita più facile perché è talmente vissuto dalla città e dalle tifoserie che un allenatore deve semplicemente controllare le emozioni: calmare l'ambiente, se c'è troppa euforia; tirarlo su quando è depresso. A Milano vedo che c'è una grande passione intorno a questa partita, ma anche molta serenità. Lunedì sera, per esempio, ho incontrato un tifoso milanista; abbiamo parlato, mi ha salutato e alla fine mi ha detto: tanto ne prendete tre. Però sorrideva».
Il Milan è in testa alla classifica, l'Inter viene da cinque vittorie consecutive, ma non può sbagliare. Come si vive con la pressione addosso?
«Non voglio dribblare le responsabilità, perché sono abituato a prendermele tutte e fino in fondo. Ma questa volta le pressioni maggiori le avranno loro. Noi fino a ieri eravamo con la testa sott'acqua e non cambierà niente se non dovessimo vincere, perché chi sta davanti è il Milan. Quello che conta per noi sarà il derby di ritorno, il 6 maggio. Almeno lo spero, perché vorrebbe dire essere in lotta per un grande traguardo. Ora la nostra unica preoccupazione deve essere quella di chiudere bene il girone di andata e cominciare ancora meglio quello di ritorno».
Il derby di domenica mette di fronte due squadre che sono negli ottavi di Champions League. In questo momento è una partita più importante del derby di Manchester. Che cosa significa?«Significa che il calcio italiano, pur dovendo lottare contro russi, arabi, americani e canadesi, ne sa sempre una più del diavolo. La nostra scuola resta una specie di università. Chi ha allenato nel campionato italiano può andare dappertutto. Io sono stato un precursore, ma ora sono tanti i tecnici italiani che stanno avendo fortuna nel mondo, dal Giappone alla Russia, dall'Inghilterra all'Irlanda».
L'Inter non vince con il Milan dal 24 gennaio 2010, l'ultimo dei quattro derby giocati da Mourinho. Poi con Benitez, Leonardo e Gasperini tre sconfitte contro Allegri. Se lei dovesse farcela, sarebbe la vittoria di un allenatore così diverso da Mou. Che effetto le fa?
«Nessun effetto particolare. Penso solo che il tempo gioca a mio favore. Nel calcio le serie positive e quelle negative devono interrompersi. Questo significa che, prima o poi, il Milan dovrà perdere».
Come ha fatto a rimettere l'Inter in carreggiata dopo un avvio così negativo?
«Con il lavoro e la pazienza, coagulando i giovani e i meno giovani. Quando sono arrivato la situazione era complicata e sono stati gli anziani del gruppo ad aiutarmi. Loro avevano la voglia e la grinta per recuperare. Non sono bolliti. Non l'ho mai pensato neppure quando le cose non giravano, perché vedevo in allenamento quanto impegno mettevano. Ogni giorno».
E allora che cosa ha frenato l'Inter nei primi mesi della stagione?«È difficile scoprirlo anche per me che vivo con la squadra tutti i giorni. Forse, dopo aver vinto tanto, un momento così è fisiologico. Serviva una scintilla: questa serie di vittorie potrebbe esserlo».
Quindi l'Inter è rinata?
«Bisogna insistere, consapevoli che niente è stato fatto e molto si potrà fare. Ho fiducia nei ragazzi. Il gruppo è solido e sano. Si parla spesso di giocatori divisi in clan: brasiliani, argentini, italiani. A me questo discorso non interessa e l'ho detto anche a loro. Quello che chiedo è che siano squadra e loro, sinora, non mi hanno mai deluso. Vi farei vedere Zanetti: è sempre il primo ad arrivare, il primo a tirare il gruppo in allenamento e a spingere i compagni in campo, l'ultimo ad andare via. Così facendo, è diventato un esempio e tutti lo vogliono imitare. Lui e Cambiasso sono gli allenatori in campo, ma quello che conta è che sono io il capo dei banditi. Del resto quando sono arrivato, sono stato chiaro: "vi conosco poco e forse farete più fretta voi a conoscere me". Io indico una linea, chi sta dentro, non avrà problemi».
Zarate, a quanto pare, è rimasto fuori...
«Maurito è un ragazzo d'oro e ha tutto per essere un campione. Però mi fa disperare. A volte mi accorgo che è il momento di mandarlo in campo, ma lui non tocca il pallone, non rincorre gli avversari, guarda la partita. Poi il giorno dopo in allenamento fa il fenomeno. Gli dico: perché non l'hai fatto ieri? Mi spiace molto, ma non posso farlo giocare con l'auricolare. Forse è anche colpa mia, perché non riesco a trovare la chiave giusta per arrivare al cuore di Zarate».
Al di là della fama di aggiustatore che le hanno dato, resta il fatto che lei è sempre riuscito a raddrizzare situazioni che sembravano disperate. C'è un perché?
«Si vede che è il mio karma. Tutto è cominciato a Cagliari nell'88, quando sembrava che la squadra non si sarebbe neppure iscritta al campionato di C1. Mi avevano chiesto la B in tre anni e invece in due siamo andati in A e al terzo ci siamo salvati. Poi è nata la storia che non sono un vincente. Forse è perché arrivo sempre un attimo prima o un attimo dopo. Quando sono andato a Valencia, nessuno sapeva esattamente dov'era e dopo di me, senza prendere giocatori, ha giocato due finali di Champions League. Nel Chelsea, sono arrivato quando i soldi erano finiti, ma eravamo riusciti a centrare la Champions e questo aveva convinto Abramovich ad acquistare il club. Comunque quello che conta è guardare avanti».
In questi mesi si è parlato poco del suo rapporto con Moratti. Qual è l'umore del presidente?
«Lo trovo sempre innamorato della squadra. Quando sono arrivato era un po' deluso e dispiaciuto, ma mai remissivo, anzi deciso a tornare in alto. Se avesse pensato di disimpegnarsi, non lo so; di certo non me l'ha mai fatto capire. L'ho conosciuto in un momento difficile della squadra; mi piacerebbe vederlo in un'occasione molto bella».
Torniamo al derby: lei ne ha giocati tanti e in tante città. Qual è quello che le è rimasto più impresso?
«Direi quello di Madrid, anche perché è stato l'ultimo che ha vinto l'Atletico. Quelli di Londra sono troppi e, per questo, dispersivi. Il derby di Roma non è eccessivo, ma particolare. Resto del parere che il derby sia fondamentale soltanto se le due squadre non hanno traguardi e quella è la partita che può dare un senso alla stagione».
Come si ferma Ibrahimovic?
«In qualche modo ci proveremo. Più che fermarlo, si può frenare o schermare. Bisogna vedere se si riesce a farlo in campo».
Intanto lei ha recuperato Milito (doppietta al Parma) e lo ha fatto senza mai abbandonarlo...
«Milito ha sempre fatto i movimenti degli attaccanti veri ed è uno che ha ancora molto da dare. Per questo l'ho aspettato volentieri. La palla non voleva saperne di entrare, ma lui in allenamento faceva sempre cose importanti».
Alvarez ha cominciato male, ma sta crescendo. Il suo acquisto era stato criticatissimo. E ora?
«È giovane, abituato a un calcio diverso e a una velocità di gioco differente. Ha sofferto la preparazione e all'inizio i suoi numeri non producevano nulla di concreto. Adesso ha cominciato a capire e a farsi capire. Direi che è un giocatore senza un ruolo ancora definito, ma in via di formazione».
Il più atteso in questo momento è Sneijder. Ha ancora voglia di sacrificarsi per aiutare l'Inter?
«Vedendolo in allenamento, direi proprio di sì. Di voglia ne ha tantissima. Ora bisogna vederlo in partita e soprattutto dovremo essere bravi a gestirlo. Fra poco si ricomincia con tre partite a settimana; tutte non le può fare».
Sneijder accetterà questa situazione così nuova per lui?
«Ho 60 anni, in un derby a Roma ho tolto Totti e De Rossi all'intervallo e se non avessi vinto, chissà che cosa mi sarebbe successo...»
In questo Paese, alla ricerca di una nuova moralità, come spesso ha sottolineato il presidente Napolitano, quale può essere il ruolo dei giocatori? Il calcio vuole restare un mondo separato, mentre tutti gli altri sono chiamati a sacrifici anche pesanti?
«I calciatori fanno parte di un mercato particolare, un po' come quello degli attori, che guadagnano un pozzo di denari. Ma gli attori girano una scena di un film e se la sbagliano hanno la possibilità di riprovarla. Un attaccante, invece, se sbaglia un gol, si prende un sacco di fischi e non può riparare. Io sono d'accordo con l'idea di moralizzare, specialmente in epoca di fair play finanziario. Però vorremmo che i nostri governanti fossero allineati e coperti. Le tasse le paghiamo volentieri, i sacrifici li facciamo, perché è giusto farli, ma vorremmo sapere dove vanno questi soldi. Ho capito vivendo a Londra, che due inglesi fanno un popolo, ma 57 milioni di italiani no. Il pesce puzza dalla testa. Io non conosco bene la politica, però così ci siamo stancati. Tutti. E allora dico: ben vengano i calciatori, che almeno ci fanno sorridere. Se siamo l'oppio dei popoli, l'oppio costa».
Autore: Redazione FcInterNews
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