Sono passati cinquant’anni da mercoledì 27 maggio 1964, la notte del Prater, la notte di Inter-Real Madrid 3-1. La notte della prima Coppa dei Campioni nerazzurra, la partita che, secondo Gino Palumbo, che la descrisse sul Corriere aveva trasformato l’Inter nella Grande Inter di Angelo Moratti.
Dottor Moratti, c’era anche lei quel giorno in tribuna a Vienna?
«Certo che c’ero; eravamo tutti a Vienna, noi ragazzi, insieme con papà e mamma. Siamo andati allo stadio in largo anticipo e in tribuna abbiamo trovato una sorpresa: Alfred Hitchcock. Quando l’ho visto, proprio sotto di noi e ci ha salutato, non so bene perché, ma ho interpretato quell’incontro inatteso come un segnale che sarebbe andata bene».
Eppure il pre-partita era stato agitato dall’infortunio di Sarti...
«Sarti aveva preso una pallonata nel riscaldamento e si lamentava molto. Papà, che era sceso negli spogliatoi, era stato chiaro: se non sta bene, gioca Bugatti. E Herrera: gioca Bugatti. Così in cinque minuti, Sarti è guarito, ha giocato e ha fatto una grande partita».
Che Real era quello del 1964?
«Molti dei suoi campioni, compresi Di Stefano e Puskas, non erano più giovani; venivano da vicende personali anche affascinanti, ma continuavano a formare una squadra comunque straordinaria, per la storia che aveva, per le cinque coppe consecutive vinte fra il 1956 e il 1960, per il fascino che esercitava sugli avversari, per l’esperienza e la classe dei suoi uomini».
E che Inter era quella di 50 anni fa?
«Una grandissima squadra, capace di arrivare in finale senza nemmeno perdere una partita: sei vittorie e due pareggi. Herrera e Suarez, che venivano dal Barcellona, sentivano la partita più di tutti».
Una finale di grande sofferenza?
«Devo dire la verità: no. Ho sempre avuto l’idea che ce l’avremmo fatta, come a Madrid nel 2010 contro il Bayern. Una sensazione comune che mi ha accompagnato in queste due finali. Ma a darmi forza, è stato anche il modo in cui l’Inter ha affrontato il Real dall’inizio: sono stati tutti magnifici, con Mazzola che ne ha fatte di tutti i colori e non soltanto per i due gol. Scappava via da tutte le parti ai difensori del Real. Straordinario».
Il Mago aveva consegnato Di Stefano alla marcatura di Tagnin...
«L’ordine che aveva ricevuto da Herrera era quello di seguire Di Stefano in ogni angolo del campo e Tagnin era stato perfetto nell’esecuzione. A Di Stefano aveva detto: fin qui puoi venire, ma se ti avvicini troppo alla porta di Sarti, ti faccio male. Di Stefano era disperato, una marcatura così non l’aveva mai avuta».
La finale con il Real è considerata da tutti gli interisti il punto più alto dell’Inter di suo papà. Lei che era presente come lo spiega?
«Vienna è stata la partita che ha trasformato la storia dell’Inter, perché ha fatta conoscere la squadra e il club in tutto il mondo. È stato un momento fondamentale e decisivo anche per il futuro. A Vienna l’Inter ha cambiato la sua dimensione storica. E poi è stato tutto bellissimo: è come quando una festa che hai preparato con grande cura riesce bene. Non sai bene perché sia venuta così bene, ma è successo e sei felice che sia stato così. E poi c’erano 30 mila tifosi interisti al seguito, una grande migrazione anche in rapporto a quei tempi. Una serata fantastica, al punto che il giorno dopo si raccontava di campane suonate in mezza Europa, compreso in Polonia. Chissà se era vero, ma è bello pensare che sia successo davvero».
I giocatori che erano presenti a Vienna raccontano di non aver mai visto suo papà così felice. È stato davvero così?
«Papà sentiva la finale di Vienna come la conclusione di un percorso importante, iniziato anni prima. È stato un po’ quello che ho provato io a Madrid nel 2010, dopo il 2-0 al Bayern. È come quando concludi un lavoro lungo e faticoso e senti di avercela fatta. È per questo che era felice, anche perché vedeva tanta gente contenta intorno a lui, ma composto, assolutamente misurato nella sua esultanza. Anch’io come lui a Madrid non sono riuscito a piangere. E un po’ mi sono anche pentito di essere stato così controllato. Vedevo i giocatori stravolti dalla felicità e Mourinho che non riusciva a trattenere le lacrime. Io ero emozionato, felice, ma sereno. E niente lacrime».
Nostalgia per quella notte, per quei tempi, per quella Milano?
«La nostalgia c’è, anche pensando a papà e mamma, a quegli anni, a quella squadra e a quell’atmosfera. E anche per quella Milano, che sapeva essere anche un po’ snob, al punto che la Coppa dei Campioni vinta l’anno dopo, a San Siro e contro il Benfica, veniva considerata quasi un atto dovuto. Forse perché la vera finale per noi era stata la semifinale di ritorno con il Liverpool, quel 3-0 che nessuno ha ancora dimenticato».
Autore: Redazione FcInterNews.it
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