Che cosa sarà scattato in quelle teste? Quando Julio Cesar è uscito dal campo, senza protestare, incappato in Morganti? Io penso che nel cervello e nel cuore è risuonata l'eco di antiche battaglie, si è sentito di nuovo "il rumore dei nemici", è riapparsa alla memoria l'epopea del Camp Nou, di quella semifinale di Champions della quale ogni minuto è impresso nella storia collettiva dell'Inter. Sono tornati a centro campo non a capo chino, ma dritti, lucidi e calmi come da tempo non si vedeva. Compatti, corti, intensi e generosi. Insomma, una grande squadra. L'Inter, tanto per capirci.

La partita era cominciata come una festa campestre, le curve che si rimbalzavano complimenti da vecchi amici, con tanti saluti (non molto affettuosi) a Maroni e al Milan. In campo per fortuna c'era Morganti. Un arbitro capace di rigenerarci, di fornire al pubblico argomenti per le più svariate riflessioni mistiche, per cori, per ruggiti di incitamento che hanno percorso gli anelli alla velocità del suono, trasformando il Meazza in un catino energetico senza pause, senza defezioni, stavolta.

Il pubblico, ecco la prima arma segreta. La differenza fra una scampagnata in una tiepida giornata di primavera, ormai lontani dalla corsa per lo scudetto, e una giornata di tifo militante, d'altri tempi, sonoro e fazioso, incurante delle esagerazioni, ma convinto che loro, in campo, stavano reagendo da campioni, da gente d'onore. E poi l'orgoglio, che non si insegna, che non si appiccica come un adesivo. Dignità e orgoglio, perché l'Inter non poteva, questa volta, cedere senza combattere. E ha combattuto. In dieci contro undici, sotto di un gol.

Contro una Lazio pimpante e veloce, ma troppo presuntuosa per meritarsi la vittoria. Convinta forse dai racconti interessati, che per giorni e giorni ci hanno descritto come una armata Brancaleone ormai sbracata e inconsistente, per di più affidata a Leonardo, dipinto come un abate Zenone in cerca di miracoli, ma incapace di guidare i suoi prodi. Allo stadio per fortuna ci possiamo evitare le cronache televisive di parte, irritanti e prostituite. Ci siamo solo noi, senza moviola, ma capaci di vedere come sistematicamente su Eto'o, su Sneijder, sui nostri portatori di palla, arrivavano entrate toste, aspre, sistematicamente scambiate per innocenti anticipi sul pallone. Fino a quando Wesley si è ricordato di essere se stesso. Ha messo la palla a terra con calma, ha atteso il tempo interminabile delle manfrine in barriera. E poi l'ha messa lì, dove tutti noi volevamo vederla, con Muslera proteso in volo plasticamente inutile. Non è stato solo un pareggio. E' come se improvvisamente si fosse spezzato un incantesimo, una magia voodoo. Era tornato Wesley, il grande piccolo genio. Ed è lì che abbiamo capito che non era finita. Anche se eravamo ancora dieci contro undici, forse contro dodici.

Quattro quattro uno. Corti e larghi, veloci e compatti. Un gigante a destra, un furetto a sinistra. Una volta per ciascuno a portar palla sulle fasce, Maicon di nome Douglas, Nagatomo di nome Yuto. Diversi nel passo e nelle geometrie, ma implacabili e quasi in competizione reciproca. La "partita del cuore" l'ha vinta Yuto, il cuore che si è battuto con la mano, da samurai dei tempi moderni, rispondendo all'ovazione della tribuna, e rilanciando a sua volta una richiesta di incitamento collettivo, ogni volta che terminava una delle sue folate incredibili, arrivando persino a tirare in porta con la personalità di un attaccante.

Era solo questione di tempo. Magari anche di fortuna. Perfino, finalmente, l'ora di avere una zolla per amica, e non beffardamente ostile, come troppe volte in passato. Biava che si affloscia sul prato e si vede passare davanti il sorriso nero di Eto'o. Samuel che danza col pallone, ipnotizza Muslera, e non sbaglia, fa la cosa che gli riesce meglio, ossia segnare con la naturalezza impietosa di un ghepardo. Tumulto di emozioni represse, urlo di gioia che attraversa lo stadio, certezza metafisica che non ci avrebbero più raggiunto, perché anche la traversa, finalmente, ci è stata amica, come è giusto, almeno ogni tanto.

Dimenticavo Leonardo. Un merito, secondo me, non glielo può togliere nessuno. E' merito suo se la squadra, in questi giorni, è rimasta serena. Lo hanno coperto di insulti, di giudizi impietosi, di sentenze senza processo. Lo hanno già sostituito anzitempo, cacciato, ridicolizzato. Tutti, tranne i suoi giocatori. Loro no, gli devono molto, e lo sanno. E lo hanno ripagato nell'unico modo serio per i campioni di tutto. Vincendo. A testa alta.
 

Sezione: Editoriale / Data: Dom 24 aprile 2011 alle 00:01
Autore: Franco Bomprezzi
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