La storia dell'ultimo anno interista ruota attorno a una percentuale che fotografa in maniera plastica l'evoluzione del pensiero di Antonio Conte relativamente alla vittoria, sua compagna di viaggio tanto bizzosa quanto fedele negli anni vissuti su e giù a bordocampo. Tutto parte il 7 luglio 2019, quando il tecnico si presentò di fronte a una platea di giornalisti selezionata nel quartiere generale nerazzurro con un biglietto da visita che tutto il mondo già conosceva a menadito: "Devo avere la percezione di avere anche solo l'1% di possibilità di poter vincere. A me piace lavorare su quell'1% e non sul 99% - diceva ai colleghi che gli chiedevano perché avesse scelto quel progetto -. Oggi c'è una squadra che da otto anni a questa parte fa un campionato a parte. Senza dimenticare il Napoli, club assestato e collaudato. C'è questa situazione in Italia, nessuno qui è un mago. Quello che posso dire è che lavoreremo tanto e bene. Questo gap esiste ma non deve essere un alibi. Nulla è impossibile, però dobbiamo anche sapere che affinché diventi possibile c'è da lavorare tanto: in campo, sul mercato, sulla mentalità. Sicuramente daremo tutto, questo lo posso dire ai tifosi".

A 364 giorni dalla spiegazione del suo manifesto programmatico, quell'1% è tornato prepotentemente argomento del giorno domenica scorsa dopo uno scontro frontale con la realtà, un'Inter-Bologna che ha sancito l'ennesima resa pubblica nella lotta scudetto della Beneamata, la prima in carriera di Re Antonio: "Ci lecchiamo le ferite, mi auguro che nelle vene dei calciatori scorra almeno l'1% del veleno che scorre nelle mie. Ora bisogna chiudere il discorso Champions e sbagliare il meno possibile: dobbiamo dimostrare di poter essere protagonisti di un progetto vincente".

Nell'arco di una stagione anomala, sulla quale va apposto un asterisco per il Covid-19, il tecnico leccese ha vissuto diverse vite, uscendone sicuramente trasformato. La fame di successi della scorsa estate, alimentata dalla voglia di rendere possibile l'impossibile, si è trasformata lentamente nei mesi pre e post-lockdown nella disillusione di un percorso di crescita interrotto fatalmente per non si sa quali cause. Lo stesso condottiero sembra aver mollato il joypad con il quale manovrava sapientemente le sue pedine in campo quando ha capito che gli automatismi insegnati dal ritiro di Lugano in poi non potevano colmare totalmente un deficit pluriennale che sfugge al suo controllo. 'Il pacchetto preconfezionato' è il vaso di Pandora che Conte ha aperto non appena ha capito che non sarebbe diventato campione d'Italia per la quarta volta da allenatore dopo il tris in bianconero. La curiosità che lo ha spinto a imbarcarsi in un'avventura più grande anche del suo ricco curriculum vitae è riuscita a prendere il sopravvento in uno strano pomeriggio d'estate, uno di quelli che Conte non immaginava neanche nei suoi incubi peggiori quando a Madrid pronosticava l'Inter del futuro con gli aggettivi 'regolare e forte'. Una previsione che l'ex Chelsea faceva anche al suo presidente Steven Zhang, nell'ambito del card reveal organizzato da Alessandro Cattelan: “Not crazy, no more”. Traduzione: 'Basta Pazza Inter'.

Se gli errori della dirigenza e delle varie proprietà sono lampanti e variegati dal 2010 a oggi, il peccato originale del vincitore seriale di titoli nazionali è stato quello di sottovalutare il peso della storia recente della creatura che si apprestava a plasmare. Conte è un allenatore del 'qui e dell'ora', che è sempre riuscito a cancellare il pessimo passato recente di ogni squadra che ha allenato attraverso l'arma del duro lavoro quotidiano. Sempre partendo da due premesse: una base solida e un contesto ambientale favorevole. Alla Juve, casa sua, ha preso per mano il club più potente a livello politico in ambito nazionale nell'anno della nuova era inaugurata dal nuovo stadio. E, approfittando dell'assenteismo dell'Inter e di un Milan che si è autodistrutto anche grazie alla complicità di Tagliavento, Conte ha cucito nuovamente il tricolore sul petto della Vecchia Signora con lo score particolare di 23 vittorie, 15 pareggi (15!) e zero sconfitte. In seguito ha avuto il merito di confermarsi padrone del campionato infrangendo anche il record di punti ma senza avere mai un contraddittorio serio con un'avversaria credibile. La pausa in Nazionale, dove ha restituito credibilità a una Selezione che prima e dopo di lui ha fatto solo figuracce Mondiali (Brasile 2014 e Svezia 2017), gli è servita per capire che è un allenatore del day by day e non un ct che lavora sul campo 4 mesi all'anno quando va bene. Ha vestito, quindi, i panni del manager, accordandosi con il Chelsea qualche mese prima del suo approdo ufficiale a Stamford Bridge, dove ha scartato subito il primo regalo dal mercato: N'Golo Kanté, alias il miglior mediano del mondo. Ereditando un gruppo che, l'anno dopo aver vinto la Premier League, ebbe una crisi di rigetto per i metodi di Mourinho e si posizionò al decimo posto. Dato importante perché Chelsea e Juve hanno un minimo comune denominatore: erano squadre senza Europa, ovvero garanzia di successo al primo colpo. Situazione che non si è ripetuta nell'avventura sui generis all'Inter, con la Champions, e il suo epilogo infausto tradotto nella parola retrocessione in Europa League, hanno sicuramente tolto qualche punto ad Handanovic e compagni, la cui autostima è stata messa a dura prova dal pesante ko contro il Borussia Dortmund. Quello del primo sfogo famigerato di Conte, accentratore per natura che per troppo senso di responsabilità ha sparato senza pietà contro squadra e dirigenti. Nel primo caso denunciando i limiti di esperienza della rosa: "Stiamo parlando di un gruppo di giocatori che, a parte Godin, non ha vinto niente. Ci sono anche situazioni difficili da gestire. A chi chiediamo? A Barella, che abbiamo preso dal Cagliari? A Sensi, arrivato dal Sassuolo?".
Nel secondo tirando i mezzo Marotta &Co. per chiedere di chiarire nuovamente i veri obiettivi stagionali del club: "Spero arrivi qualche dirigente a dire qualcosa", le parole esatte usate.

Se vi sembra di aver sentito recentemente queste esternazioni non vi sbagliate: Inter-Bologna è la seconda Caporetto nerazzurra dopo Dortmund. Due match persi in rimonta e uniti da un file rouge lungo otto mesi che si chiama calciomercato: da quel settore devono arrivare le risposte definitive che faranno capire in quanto tempo l'Inter tornerà all'altezza del suo glorioso passato, ad avere il' progetto vincente' che tutte le componenti si devono meritare. Nel frattempo sono arrivati Christian Eriksen e Achraf Hakimi, due che in linea teorica dovrebbero accelerare il processo di crescita. Nobilitando quel pacchetto preconfezionato che ora comincia ad avere le sembianze di un regalo infiocchettato personalmente da Steven Zhang. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 09 luglio 2020 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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