Il calcio è cambiato. I modelli di business del fútbol non sono più quelli di un tempo. Non è più l’era dei sentimentalismi morattiani. Sostenibilità è la parola (e regola) numero uno, non a caso reiterata fino alla nausea in ogni discorso sostenuto negli ultimi tempi da Beppe Marotta. Tutto giusto. Tutto vero. Eppure nell’epoca in cui, tutti sono ben consci, e abituati nell’atto pratico della quotidianità ad inflazione e crisi economica in ogni settore, comprendere fino in fondo le logiche di mercato, o meglio, di CALCIOmercato non è così automatico e semplice come ogni diesse auspica. “Se mettessi il cappello da tifoso faremmo un contratto immediatamente, se metto quello da dirigente dobbiamo essere un attimino più attenti” diceva Marotta all’indomani dell’ultima di campionato che aveva incoronato il Milan campione d’Italia, a proposito del rinnovo di Ivan Perisic, finito poi al Tottenham di Antonio Conte (capitolo questo rimandato). Se mettesse il cappello da tifoso, il buon Beppe manderebbe probabilmente in tilt l’azienda FC Internazionale, se mettesse, cosa che fa pure egregiamente (e diremmo per fortuna) il cappello da dirigente si imbatte in analisi e conseguenti azioni appena (neanche troppo) più oculate, a costo di rimetterci cuore e benevolenza. E adesso arriviamo al clou del discorso.
Benevolenza, questa, mandata a quel paese già lo scorso agosto, quando per amore dell’Inter, probabilmente non quella sfera di Inter visibile ai tifosi ma come da manuale freudiano di gran lunga più importante e sostanziale ai fini della sopravvivenza darwiniana, ha portato al “grazie e arrivederci” pronunciato al King di Milano, Romelu Lukaku. Vendere Big Rom, all’alba di quel 3 agosto, sembrava impensabile, folle, indicibile e soprattutto infattibile, pena: il più grande passo indietro, se non fallimento, tecnico-sportivo degli ultimi anni. Eppure così non è stato, risultati alla mano (secondo posto e scudetto al Milan compreso). A dieci mesi esatti da quell’addio, ancora una volta, rendere giustizia al lavoro fatto dall’ad nerazzurro è un dato di fatto obbligato e innegabile e persino il più romantico degli interisti si ritrova spalle al muro nell’ ammetterlo. Cioè, vendere Lukaku (e non vincere uno scudo che con il belga sarebbe stato in saccoccia) è stato un bene? Assolutamente sì. E a dirlo non è chi scrive ma bilanci e Trofei, meno “ambiziosi”, ma quantitativamente maggiori (e… dulcis in fundo, molto dulcis, economicamente).
Non si campa di solo amor - diceva un’anziana ziedda (vedi vocabolario sardo) - e se i soldi non fanno la felicità, l’amore senza soldi è duro da far durar. Ed è proprio lì che casca il pero: amore o sostenibilità? Moratti sceglierebbe il primo e non è un caso che tutt’oggi è ancora considerato il padre degli interisti, gli stessi che oggi però gridano allo scandalo “Italia fuori dal Mondiale” e calcio italiano cento spanne sotto il calcio che conta. Sarà mica un caso che, ci perdoni il cuore, il sentimentalismo morattiano tanto caro agli interisti di vecchio stampo oggi avrebbe la stessa durata di un gatto in tangenziale. Dunque che si fa? Si accetta la realtà e se un nostalgico ricordo dell’Inter d’amour squarcia ancora i cuori dei nerazzurri, si guarda oltre e si ringrazia il tanto odiato business di averci regalato il buon Marotta. Da Moratti a Marotta il passo non è né breve né indifferente, eppure tant’è e va lodato e ringraziato.
In tutto questo mappazzone visionario aziendalista si inserisce l’attuale necessità, espressa da Nachino, di chiudere la corrente sessione di mercato con un attivo di circa 60 milioni. Al momento non è chiaro attraverso quale strategia la società sceglierà di perseguire tale obbiettivo: basterà salutare qualche giovane promettente e sistemare qualche giocatore ormai definitivamente fuori dai radar? Oppure, ancora una volta, bisognerà immolare sul maledetto altare dei conti un pezzo da novanta come da ferite ancora oggi difficili da cicatrizzarsi dell'estate scorsa? Sta di fatto che ultimamente un nome in particolare viene fatto dondolare nella mente del tifoso interista, uno di quelli che fa male, un nome di un tifoso interista: trattasi di Alessandro Bastoni. Parliamo di uno dei protagonisti di questi ultimi anni, uno dei giocatori che nell’era Conte ha dato un contributo decisivo nella conquista nello scudetto e, a detta di giocatori di tutto rispetto a discapito della soggettività del tifo, “l’erede di Giorgio Chiellini all’interno della Nazionale Italiana”. Classe ’99, ricoprente un ruolo in cui i fenomeni sono sempre più difficili da trovare, mancino (aspetto non da sottovalutare, soprattutto nel l’interpretazione di un modulo di gioco con difesa a 3 nel quale l’uscita palla al piede è di vitale importanza avvenga sul piede forte). E soprattutto: interista non a parole, bensì nei fatti e sulla pelle.L’ipotetico sacrificio di Bastoni è del tutto depurato dai sentimenti, bensì squisitamente logico: nell’intreccio di vicissitudini e avvenimenti che costellano le annate delle società, risiede sicuramente la presa di informazioni che le stesse società calcistiche altrui avanzano sui giocatori delle rosa, e, a quanto pare, il nome del gioiello interista è il più richiesto. E viene da chiedersi molto spontaneamente, chi non lo vorrebbe? Quasi scontato infatti sembra l’interesse delle big europee per un giocatore così talentuoso, così giovane e così unico nel suo modo di difendere ma altresì di uscire palla al piede con la naturalezza di un veterano. E quale interesse più concreto della squadra al momento capitanata da chi l’ha lanciato in serie A?
E ancora una volta si apre il dilemma e dissidio interiore cuore vs ragione, tifoso vs dirigente con la piccola differenza dell’interismo vero e naturale (a suon di diastole e sistole e non di social e ‘pierraggio’) diverso da quello di un agosto fa. E che si fa? Vendere nel bene del segno positivo e del mercato a venire o aprire una parentesi, scavando un solco stradale impensabilmente alternativo? E quale sarebbe? Impensabile nel calcio che conta ma irrimediabilmente colpo da fantasista degno di un “folle e geniale” Marotta: tenere il gioiellino e perseguire nella più peculiare delle specialità dei parametri zero, negandosi il Bremer di turno, ma tenendosi stretto un faro per il presente e futuro che, chissà, se non del tutto utopistico, potrebbe fungere da sintesi di ragione e sentimento, come inizio di una nuova era, fatta di razionalismi marottiani e sentimentalismi morattiani, di ieri e oggi, ma certamente nerazzurri.
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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