C’era una volta un giocatore che insieme era l’essenza della dicotomia ‘genio e sregolatezza’. Voi direte: e la novità dov’è? Ce ne sono tanti di giocatori nel calcio di oggi che fanno parlare di sé non solo per le gesta in campo, ma anche per le bizzarrie, chiamiamole così, fuori dai terreni di gioco. Ma questo giocatore in un certo senso era anche più ‘moderno’ di loro, visti i tempi di cui parliamo. Oggi ormai siamo assuefatti a questo genere di campioni che si rendono protagonisti spesso e volentieri di peripezie extra-calcistiche, sembra quasi una norma; ma all’epoca, questo giocatore di cui qui si parla era troppo anticonformista per quelli che erano i costumi rigidi e un po’ bigotti degli anni ’60. Tanto che il suo soprannome, ‘la farfalla’, non nasceva esclusivamente per le sue leggiadrie in campo, ma anche dalle licenze che si concedeva nella vita, anche intrecciare una relazione con una donna sposata che abbandonò il marito al quale fu costretta a unirsi in matrimonio per andare a vivere con lui, uno scandalo incommensurabile per quegli anni. Ma coloro che lo amavano c’erano, ed erano tanti, ma un destino crudele ha strappato troppo presto alla vita terrena quell’uomo e quel calciatore fuori da ogni schema.
Mi perdoneranno i tifosi nerazzurri se per questa volta la rubrica non è dedicata alle storie di casa nostra, ma a un giocatore il cui nome è legato indissolubilmente alla storia dell’avversario di turno. Ma questo è un nome che unisce un po’ tutti gli amanti del calcio italiano, specie quelli più datati, e che dovrebbe causare rimorsi contro il fato per chi è stato privato di poter godere della sua classe. Era anticonformista? Era trasgressivo? Era un beatnik, come fu soprannominato? Forse, più semplicemente, Luigi Meroni da Como, per tutti ‘Gigi’, era ‘avanti’. Avanti in tutto: Meroni era un’ala destra moderna, un numero sette come pochi se ne vedevano, dal dribbling fulminante e dal tiro sopraffino. Era un artista nel vero senso della parola, anche perché la pittura fu uno dei suoi cimenti extra-sportivi. Era a suo modo geniale, capace sempre di sorprendere il prossimo, uno che non aveva timore a presentarsi ai raduni della Nazionale coi capelli e la barba più lunghi del consentito o di andare in giro vestito alquanto originale e con una gallina al guinzaglio. Perché per lui questa era libertà, “libertà assoluta” come ebbe da dire una volta.
Meroni era anche e soprattutto un grande talento. Un talento del quale si accorse l’Inter quando era ragazzino e militava nelle giovanili del Como e che avrebbe voluto portarlo con sé, salvo scontrarsi col deciso rifiuto della madre, cui il pensiero del pendolarismo tra Como e Milano, per un ragazzino come lui, causava molte apprensioni. E sul quale puntò deciso il Torino, che dopo la tragedia di Superga stava conoscendo un periodo di rinascita, sganciando al Genoa 300 milioni di lire, cifra record per un ragazzo di vent’anni (erano proprio altri tempi). La farfalla entrò subito nel cuore dei tifosi granata al punto tale che, quando Gianni Agnelli provò a portarlo alla Juventus, gli operai della Fiat torinisti scesero in piazza e addirittura boicottarono le catene di montaggio di Mirafiori. E una pagina di questo mito, Meroni, la scrisse proprio a San Siro, e proprio contro l’Inter, la Grande Inter di Helenio Herrera.
Era il 12 marzo del 1967, penultimo anno della prima era del Mago alla guida dei nerazzurri: squadra che iniziava a sentire un po' il peso dell’età e degli anni d’oro ma che continuava a primeggiare in Italia e in Europa. E che soprattutto, non perdeva in casa da quasi tre anni. Quel giorno arrivò il Torino di Nereo Rocco, con un Meroni ispirato come non mai. Ad occuparsi di lui c’era Giacinto Facchetti, un marcatore arcigno, col quale il duello si fa subito tosto. E allora, al minuto 17, ecco il lampo, la genialata, della farfalla: slalom tra gli avversari fino all’area di rigore e poi di nuovo lui, il Cipe: Meroni entrò in area, sembrava perdere il controllo della sfera, ma prima ancora che Facchetti possa battere ciglio inventa un pallonetto morbido che lascia Giacinto e Sarti di sale, costretti a guardare il pallone infilarsi in rete. Un gol che dice tutto dell’essenza calcistica di Gigi Meroni, un colpo pesante al quale l’Inter non reagì, anzi otto minuti dopo fu costretta a subire la rete del raddoppio di Giorgio Puia, al termine di una cavalcata irresistibile. Inutile la rete di Mauro Bicicli nella ripresa: il fortino fu espugnato, l’Inter perse in casa dopo tempo immemore, sentinella di una stagione chiusa nella maniera più amara, con uno scudetto sfuggito in volata per una sconfitta a Mantova e la Coppa dei Campioni strappata dagli scozzesi del Celtic in finale.
Gigi Meroni, qualche mese dopo, andò incontro al suo destino: dopo una partita vinta per 4-2 contro la Sampdoria, si trovava in compagnia del compagno Fabrizio Poletti (che lo convinse ad abbandonare il ritiro post-partita prima della fine) in centro a Torino, quando provò ad attraversare la strada in Corso Re Umberto. Fu un attimo: una Fiat 124 guidata da un ragazzo 19enne, Attilio Romero, che negli anni ’90 diventerà presidente proprio del Toro, prima del fallimento e della rinascita firmata Urbano Cairo, lo colpì in pieno mandandolo sulla carreggiata opposta, dove fu travolto da una Lancia Appia. Inutile il trasporto in ospedale, troppo gravi le ferite riportate nell’incidente. Al funerale parteciparono più di 20.000 persone. La domenica successiva andò in scena il derby della Mole con una miriade di fiori lanciati da un elicottero ad adornare la fascia destra, la sua fascia. Il Toro vinse 4-0, l’ultimo gol lo firmò colui che ne ereditò il numero sette, Alberto Carelli. Gli altri tre li fece invece l'amico Nestor Combin, che giocò nonostante la febbre perché Meroni la settimana prima gli predisse che avrebbe fatto una tripletta.
Questa sera va in scena Torino-Inter, proprio nella settimana del 46esimo anniversario di quella tragica ricorrenza. In tanti di voi, me compreso, avranno sentito solo parlare di Gigi Meroni e forse nemmeno troppo nel dettaglio. Ma chi ama questo sport oggi lo fa anche perché questo sport negli anni si è alimentato di storie e di miti che meritano di essere sempre approfonditi e ricordati, e la storia della 'Farfalla granata' rientra a pieno titolo tra queste, al di là della bandiera. Chissà, forse oggi le trasgressioni di Meroni non farebbero nemmeno più notizia, e questo forse lo rende ancora di più un personaggio unico nel suo genere.
Avrebbe potuto goderselo l’Inter, ma l’istinto materno ebbe la meglio; ha scritto pagine importanti della storia del Toro prima che il destino se lo portasse via insieme a quel suo modo di vivere scanzonato e irriverente, che gli costò tante critiche specie quando si trattava di vestire la maglia della Nazionale. La stampa lo riteneva ‘indegno’ di farlo per il suo look ritenuto dissacrante, e lui reagiva, come raccontava Candido Cannavò, andando da Facchetti in occasione di una rimessa laterale dicendogli: “Dalla al Gigi, Giacinto, qui sul baffo”. Col sorriso, spensierato, senza andare sopra le righe o magari rinfacciare i gol come risposta da fornire alla stampa. Unico.
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