Il razzismo va condannato sempre e comunque, in ogni luogo e in qualsiasi contesto. Punto. L'ultima discussione sull'argomento si è accesa dopo le presunte offese razziste di Francesco Acerbi nei confronti di Juan Jesus durante Inter-Napoli. Finora presunte, appunto, perché al momento ci troviamo davanti a due prese di posizione: da una parte quella del difensore nerazzurro, che tornato da Coverciano dopo l'addio al ritiro della Nazionale ha respinto le accuse ("Non ho detto nessuna frase razzista, questo poco ma sicuro", aggiungendo poi che il brasiliano probabilmente "ha capito male"); dall'altra quella del difensore azzurro, che ha replicato a tono sui social raccontando la sua versione dei fatti ("Acerbi mi ha detto 'vai via nero, sei solo un negro'. In seguito alla mia protesta con l’arbitro ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa aggiungendo poi anche: 'per me negro è un insulto come un altro'. Oggi ha cambiato versione e sostiene che non c’è stato alcun insulto razzista. Non ho nulla da aggiungere").

Nelle prossime ore Acerbi e Juan Jesus (dopo l'indicazione del Giudice Sportivo di un supplemento d'indagini) verranno ascoltati dal Procuratore della FIGC per capire quanto accaduto: se Acerbi dovesse essere colpevole di un atto del genere, allora dovrà giustamente essere punito. Senza se, senza ma, senza giustificazioni. Al momento, però, la cronaca dice che ci troviamo davanti alla parola di Acerbi contro quella di Juan Jesus. Al centro, un tema delicato come quello del razzismo che non conosce - e non deve mai conoscere - colori. Della pelle in primis, figuriamoci di una maglia da calcio. Chi sbaglia deve pagare, perché il segnale che si deve mandare è semplice: non è più tollerabile che un argomento di tale importanza possa tornare ciclicamente a galla.

In un Napoli-Inter del passato, ad esempio, l'allora allenatore nerazzurro Roberto Mancini accusò il collega azzurro Maurizio Sarri davanti alle telecamere di avergli dato del "frocio"; un'altra volta lo stesso Juan Jesus confessò che Higuain gli diede del "negretto" e della "scimmietta"; un'altra ancora De Rossi bollò Mandzukic come uno "zingaro". E via discorrendo. Il problema è che dalle panchine e dal campo l'odio sale minaccioso sulle tribune degli stadi (con i casi di Lukaku durante Juventus-Inter e Maignan in Udinese-Milan tra i più recenti) e si riversa poi senza pietà sulla società. 

Ormai le parole come "negro", "zingaro", "frocio" e così via escono con troppa facilità dalle bocche delle persone. Nel mondo del calcio, vetrina della collettività, devono essere bannate. E nessuno dica che "quello che succede in campo rimane in campo", come fatto dallo stesso Juan Jesus dopo il triplice fischio di Inter-Napoli, o come fatto intendere dal presidente dell'Assocalciatori, Umberto Calcagno, che a Radio Anch'io Lo Sport ha invitato a "non strumentalizzare" la questione. Con questi atteggiamenti, purtroppo, si danno segnali sbagliati. Si autorizzano indirettamente anche i ragazzini a fare di tutto in un rettangolo verde, anche le cose sbagliate, solo perché lo fanno anche gli idoli che ammirano in tv. E non va bene. Perché il razzismo non è e non sarà mai "solo una cosa di campo".

Sezione: Editoriale / Data: Mer 20 marzo 2024 alle 00:00
Autore: Stefano Bertocchi / Twitter: @stebertz8
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