Lunga chiacchierata di Davide Santon ai microfoni di Radio Serie A, dove l'ex terzino dell'Inter, congedadosi dal calcio qualche anno fa, si racconta volgendo un inevitabile sguardo al passato che per lunghi tratti è stato colorato di nerazzurro.
Su Inter-Manchester del 2009 e il delicato compito di fermare CR7:
"Inter-Manchester United del 2009 penso sia stata la partita che racchiude la mia carriera. Anche grazie a quella gara sono andato avanti un bel po’ di anni, ancora adesso la gente si ricorda della marcatura a uomo su Cristiano Ronaldo che quell’anno vinse il pallone d’oro. Era il mio esordio in Champions League e avevo compiuto 18 anni. Si giocava l’ottavo di finale, per l’Inter era una partita fondamentale. In quel periodo ero tranquillo e spensierato, stavo bene fisicamente, avevo l’adrenalina addosso e ricordo che studiai bene CR7, anche se un giocatore così puoi studiarlo finché vuoi, ma se vuole la giocata diversa te la fa sempre. Cercai di non farlo partire palla al piede, ma anche quando successe poi riuscii a fermarlo. Un’emozione che non si può dimenticare".
Su Mourinho, considerato anche da Santon un papà:
"Non avrei mai pensato di partire titolare, invece Mourinho venne da me e disse: non mi interessa se hai 18 anni, io per te stravedo e perciò questa la giochi tu. Il giorno dopo il match, scherzando, mi disse: 'Oh, ieri hai fatto veramente schifo'. Era il suo modo per vedere la mia reazione, per caricarmi. Infatti aggiunse: 'Tu sì che hai i c….i. Giocherai anche al ritorno'. Comunque avevamo un rapporto molto amichevole. Mi scriveva messaggi del tipo: 'Oggi cosa farai?', o 'Fai il bravo e vai a dormire presto'. Come un secondo papà che voleva rigassi dritto".
L'infortunio:
"Faccio il mio esordio a gennaio 2009 e da quel momento gioco praticamente tutte le partite da titolare. In un anno debutto anche in Coppa Italia, in Champions League, in Nazionale Under-21 e con Lippi anche nella Maggiore. Quando sta per iniziare la stagione 2009/10, mi convocano in U-21 contro il Lussemburgo, mi fanno un brutto intervento che comporta la rottura del ginocchio. All’intervallo premono per farmi tornare in campo. Abbiam bisogno di te mi dicono, devi giocare. Allora stringo i denti, torno in campo, ma mi spappolo il menisco. Vengo operato, ma dopo poche settimane ero già tornato a correre. Da quel momento inizia un calvario. Il ginocchio si gonfiava sempre, sentivo sempre dolore, non mi sentivo più io, non ero più il Davide Santon di prima. Quel momento ha condizionato il futuro, la mia carriera che comunque è stata buonissima, ma avrei potuto fare molto di più".
Sullo scudetto del 2009, che ha pure tatuato:
"Il primo scudetto, nel 2009, è il trofeo che sento più mio, infatti me lo sono anche tatuato sul braccio. Poi il triplete sì, ero parte di una rosa importante, ma non mi sento protagonista assoluto di quell’anno. Son stato fuori tanti mesi anche se per me, avendo giocato sia in Serie A che in Champions, rimane comunque nella storia".
Premier e ritorno in Italia:
"Venivo da un periodo negativo, con tanti infortuni, le aspettative dopo il triplete erano altissime e perciò arrivò la cessione. Io avevo bisogno di ritrovarmi, di serenità e continuità e quindi parlando con l’Inter era arrivato il momento di cambiare. Forse dopo quell’infortunio, sono stati i tre anni e mezzo in cui ho trovato più continuità in assoluto. Poi un nuovo infortunio con annessa operazione con stop di nove mesi. Quando rientrai, trovai un nuovo allenatore che preferiva un altro profilo. Io volevo giocare, perciò dopo una sconfitta dell’Inter col Sassuolo, chiamò Mancini. E non potei rifiutare. Volevo rilanciarmi, ma non penso di aver mantenuto la promessa. Avevo la voglia di spaccare il mondo, tornare a fare la differenza. Invece ebbi alti e tanti bassi. Non rendevo quanto volevo, la testa andava ma le gambe no, mi rendevo conto che il mio corpo stava già andando in discesa. E avevo ancora 26 anni. Capii che non sarei più tornato quello di prima. Giri, parli coi dottori, sai che migliorare non puoi, al massimo puoi mantenere quello che sei. Però anche quello era difficile, le ginocchia giocandoci sopra si consumavano. Era un punto nel quale andavo a peggiorare al posto di migliorare. Nel mio ruolo la corsa è una parte molto importante e se non riesci ad andare poi fai fatica. La gente viene allo stadio, giustamente si aspetta il massimo, però non sa cosa c’è dietro. Non mi aspettavo che capissero, io purtroppo ero consapevole di un fatto molto chiaro: quando devi sprintare, ma capisci che non vai più alla velocità di prima, puoi lavorare quanto vuoi ma è inutile".
Inter-Juve del 2018 e l'omaggio:
"In un Inter-Juve decisivo, entrai sul 2-1 e perdemmo 3-2. Marcavamo a zona, c’ero anch’io in area, può capitare che un giocatore come Higuain possa anticiparti e fare gol. Mi presi tutti gli insulti, dissero che ero scarso. Io sapevo di non esserlo, ho sempre saputo invece di essere stato un giocatore forte. Se sono diventato mediocre è perché gli infortuni non mi facevano performare come volevo. Quando però tornai da avversario con la Roma, mi feci male e tutto lo stadio mi applaudì. Un motivo di orgoglio. Anche se ci lasciammo non nel migliore dei modi, i tifosi dell’Inter si ricordarono quello che ero stato, come son cresciuto e quello che loro son stati per me. Mi dissi: lascio come volevo".
Il ritiro:
"È stata una delle decisioni più dure della mia vita. Dopo gli allenamenti tornavo sempre a casa, raramente potevo uscir fuori a giocare coi bambini, dovevo sempre mettere il ghiaccio anche solo per potermi allenare il giorno dopo. La fine è arrivata in un momento inaspettato. Finisco l’anno con Fonseca, poi arrivo Mourinho ma io ero sul mercato. L’annuncio di Mou arriva mentre ero sdraiato sul lettino. Mi dissi: 'Se questo non è un segnale… Può essere la mia fine definitiva, o l’apertura dell’ennesimo rilancio'. José voleva portarmi in rosa, ma a patto che stessi davvero bene, anche se sapeva quali erano le mie condizioni, che avevo giocato poco. Per il bel rapporto che abbiamo fui sincero con lui. Gli dissi: 'Mister, oggi sto bene, domani non lo so'. Capisco la società che prese una decisione su di me, mi ritrovai fuori rosa nell’ultimo anno di contratto. Perciò iniziai a vedere la mia fine arrivare. Andavo a Trigoria, mi allenavo e pensavo. 'Ma domani come faccio a riallenarmi?'. Poi giocavo una partita, e non sapevo come avrei potuto giocare anche la successiva. Fisicamente sentivo sempre dolore e, piuttosto che fare figuracce, presi la decisione di ritirarmi. Son stato male, ma non poteva andare altrimenti. È stata molto dura lasciare. Sogni di fare il calciatore, cresci, raggiungi l’obiettivo e non vuoi che finisca mai. Ma un giorno quella fine arriva. Quando per vent’anni fai sempre quello, a un certo punto ti svegli una mattina e non hai più niente. Ti chiedi: 'E adesso che faccio?'. A un certo punto mi svegliavo vuoto dentro, non sapevo più dove girar la testa. Sono stati 5-6 mesi di grande difficoltà, poi pian piano mi sono ripreso".
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