"La brutta figura fatta dall’Italia l’altra sera è stata quasi peggio di quella che abbiamo fatto noi". Parlando della crisi in cui versa la Nazionale italiana, Beppe Marotta ha messo in parallelo la débâcle dell’Inter nella finale di Champions League, a Monaco di Baviera, contro il PSG al 3-0 incassato a Oslo dagli azzurri, un ko pesante che compromette praticamente sul nascere la possibilità di qualificarsi direttamente ai Mondiale 2026. Con lo spettro di non vedere la nostra rappresentativa sulla cartina geografica del calcio per la terza volta di fila. Sarebbe una tragedia inaccettabile per un popolo che considera il calcio come una religione, il primo sport in assoluto con grande distacco sugli altri.

La frase del presidente nerazzurro, a onor del vero, è stata estrapolata da un discorso più complesso circa lo stato di salute del nostro calcio, ma è comunque utile a capire che, nel Paese del risultatismo, il rischio è essere portati a credere che l’epilogo di una partita rispecchi anni di lavoro di un intero movimento. Senza tenere conto né del contesto né degli avversari. Ecco perché l’Europeo vinto nel 2021 viene considerato una meravigliosa eccezione perché contraddice l’assioma secondo cui da anni stiamo facendo tutto male, dal calcio di base fino alla punta della piramide. Non è così o, meglio, è così solo se si vuole fare di tutta un’erba un fascio; se si vuole trovare un semplice capro espiatorio, che sia il presidente federale o il ct di turno. Per tutti, come spesso succede, ha pagato l’allenatore, quello che a Coverciano definiscono l’uomo con la valigia sempre pronta a portata di mano per sottolineare la precarietà del ruolo.

Luciano Spalletti è l’ultimo di una lunga serie di ct sono usciti con le ossa rotte dall’esperienza in azzurro, eccezion fatta per Antonio Conte, la figura che meglio incarna quella del mago capace di trasformare una delle rose più modeste della storia d’Italia in un gruppo pronto a morire per la causa. Per gli altri, che hanno semplicemente provato a dare un senso tecnico-tattico a una rosa di giocatori selezionati da un bacino sempre più scarno, la macchia non se n’è mai davvero andata dal loro curriculum. Gian Piero Ventura si è ritirato, Roberto Donadoni e Cesare Prandelli non allenano più, Roberto Mancini è a spasso dopo la parentesi dorata in Arabia Saudita. Un destino sportivamente funesto che Spalletti, commentando con amarezza la sua ultima panchina azzurra, ha tratteggiato perfettamente ricorrendo a una metafora: "Potevo rimanere in cima alla montagna e invece devo ripartire un’altra volta". Lucio dovrà rifare tutto da capo, dopo aver ammesso in maniera candida i tanti errori commessi durante la sua gestione. Eppure, appena due stagioni fa, era stato il demiurgo della squadra, il Napoli, che praticava il miglior gioco del campionato, apprezzato anche in tutta Europa. Ma il calcio non ha memoria, pensate alla traiettoria di Simone Inzaghi, per cui i giudizi sono cambiati di colpo a causa di una finale persa malamente contro una squadra, il Paris, con mezzi economici decisamente migliori. Inutile chiedersi quale sia stata la figuraccia peggiore, non aggiunge nulla alle conseguenze parimenti devastanti per il calcio italiano. Da una parte, una rappresentante della Serie A non vince una Champions League da 15 anni (l’Inter), dall'altra a livello di Nazionale non ci presentiamo su un palcoscenico planetario dal 2014. Cosa è successo in questo lasso di tempo? Se è vero che non sono più nati talenti generazionali, è altrettanto vero che abbiamo creduto di migliorare la qualità complessiva del nostro movimento provando a copiare uno stile di gioco che non ci appartiene (le discussioni sulla costruzione dal basso sono emblematiche in tal senso). Un’omologazione che può costarci cara, dato che in questa fase storica non possiamo permetterci né i petrodollari né gli Yamal.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 12 giugno 2025 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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