"Adesso basta sangue ma non vedi. Non stiamo nemmeno più in piedi... un po' di pietà", dice una canzone di Lucio Dalla. "Domani, domani, domani chi lo sa, che domani sarà. Oh, oh, chi non lo so, quale Dio ci sarà". Non sappiamo nemmeno quando potremo riabbracciare figli, madri, padri, amici. Quando potremo riprenderci abitudini che abbiano un vago sapore di normalità, quando la smetteremo di allontanarci vedendo uno sconosciuto che ci viene incontro nella stessa corsia di un supermercato, quando potremo tornare a intravedere un sorriso anche solo accennato al posto di una mascherina. 

E non sapremo neanche come saremo quando potremo tornare a incontrarci, che effetto ci farà un contatto fisico vietato a lungo. Se certe rughe d'espressione ai lati della bocca o vicino agli occhi avranno cambiato forma. Se l'odore della pelle sarà ancora come lo ricordavamo. "Ma chissà se cambierà, oh non so se in questo futuro nero buio forse c'è qualcosa che ci cambierà. Io credo che il dolore è il dolore che ci cambierà", per usare, ancora, le parole di Lucio Dalla. Non siamo, al momento, dei padroni che stringono forte il guinzaglio della loro vita; siamo anime che non possono nemmeno fare quello che, per sua indole e natura, l'uomo è da sempre portato a fare nelle difficoltà: stringersi, far sentire una forma di calore. Perché è vietato, o sconsigliato, e certamente pericoloso. Questo è ciò che stiamo vivendo.

Motivo per il quale, e nel ribadirlo mi scuso ancora con chi preferirebbe diversamente, il calcio non trova, non può e non deve trovare, spazio. Pochi giorni fa sono stati rimandati i Giochi Olimpici: nell'era moderna era successo solo nel 1916, nel 1940 e nel 1944. Erano in corso la Prima poi la Seconda Guerra Mondiale. Probabilmente questo può essere utile per comprendere che, al di là di pur valide motivazioni economiche e altrettanto o ancor più valide motivazioni sportive, siamo davanti a qualcosa di più grande e urgente.

Si sono fermati perfino quei Giochi che nell'antica Grecia significavano non solo la scansione del tempo ma soprattutto, per i 5 giorni della loro durata, l'interruzione di qualunque guerra in corso in nome di quella che veniva chiamata "tregua olimpica". Seguendo il linguaggio mediatico dei nostri tempi attuali, abbiamo la percezione di trovarci a nostra volta a combattere una guerra. E in parte è davvero così anche, se grazie a Dio, abbiamo l'immensa fortuna di non saper nemmeno immaginare l'effetto che fa il rumore di una bomba o di uno sparo. Ma siamo di fronte a una guerra di cui non possiamo essere noi a decidere durata e termine. Al punto che persino i Giochi Olimpici, che da sempre hanno avuto questo potere, devono adeguarsi. Sono loro ad adeguarsi. E a fermarsi.

E il calcio cosa fa? Si interroga ancora su quando potranno riprendere gli allenamenti, su quanto tempo servirà per ritrovare la condizione, se le porte saranno aperte o chiuse, se basterà giocare ogni tre giorni, se si andrà avanti fino a Ferragosto, se qualcuno preferisce i playoff, se ad altri va bene annullare tutto o, costi quel costi, uno scudetto va assegnato. Non risuona tutto stonato, irreale, banale?

"E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme. Nessuno si salva da solo", ha detto papa Francesco nella storicità e unicità della cornice offerta miseramente da una Piazza San Pietro deserta e da un cupo cielo romano che scaricava pioggia. O magari lacrime. Viviamo un tempo in cui tutto è più grande di noi e la grandezza, a volte, sta nell'umiltà di capire la propria piccolezza dinnanzi a certe cose. Restare in silenzio, per un po'. Magari pregare, o implorare o aspettare che il peggio passi.

Il rugby ha dato il suo segnale: chiudiamo tutto, lo scudetto non si assegna. Il basket sta per arrivare. Con la comprensibile disperazione di chi ha investito soldi o anche solo sogni (che, per quanto mi riguarda, valgono persino di più). Il calcio faccia lo stesso: con la comprensibile disperazione di chi magari vede sfuggire il sogno o l'occasione di una vita che magari non tornerà più.

A oggi è impossibilire ipotizzare un periodo buono per tornare in campo perché prima ancora dovremo avere la possibilità di uscire di casa e riprendere tutte le attività (e anche queste cose non sappiamo ancora quando accadranno). Ed eventualemente in che clima si tornerebbe in campo? Con gli spalti degli stadi deserti o con gli ingressi contingentati? E che valore avrebbe un campionato portato avanti a ritmi serrati mentre, magari, nel paese e nel mondo ancora non ci si regge in piedi per le conseguenze economico-sociali di ciò che stiamo vivendo? A oggi conviene aspettare e tacere. E prepararsi all'idea, non certo folle, di stringersi la mano e darsi appuntamento al prossimo anno.

I sogni, se anche li metti da parte, restano sempre lì, pronti per essere tirati fuori dal cassetto al momento opportuno. "Forse c'è qualcosa che ci cambierà. Io credo che il dolore, è il dolore che ci cambierà. Io credo che l'amore, è l'amore che ci salverà", avrebbe cantato, ancora, Lucio Dalla.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 29 marzo 2020 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
vedi letture
Print