"L'uomo col cappello se ne fregherà che il cielo sia bello o se pioverà...". Era il 2015 e J-Ax, pseudonimo di Alessandro Aleotti, sfornava con la Newtopia, un quadro musicale di introspezione che ha reso ai j-axini più affezionati una sorta di autoritratto che il rapper milanese fondatore degli Articolo 31 faceva del suo nuovo sé, cresciuto a pane e musica, qualche attrazione immorale e il pizzetto che col tempo diventava brizzolato. Dopo qualche anno di silenzio, lo zio tornava alla ribalta, sui palchi, palazzetti, interviste... e la parafrasi de 'L'uomo col cappello' non era neppure troppo necessaria: nella società in cui tutto è giudicabile su una base di valutazione che va da 0 a 10 botox per cm di pelle, dove tutto è apparenza più che sostanza, l'uomo col cappello non solo fa della bruttezza identità, ma gli affida il delicato compito di presa di coscienza di una condizione d'essere che oggi, ancor più di allora, vale una rivoluzione. Alessandro è d'altronde lo stesso di sempre, solo un po' mutato da esperienza e saggezza misurabile con il passare degli anni, ma lo stesso che urlava alla sua Milano "sei troppo bella per dirti addio" e alla quale subito dopo rinfacciava a denti stretti "ci sono anch'io".
"Ipocrisia nuda come modelle sul cartellone dei saldi fuori stagione, Montenapoleone" cantava anni addietro, lui che di Monte Napoleone ne conosce le leggi non scritte, dove tra i lustrini e i prezzi alle stelle di una borsetta griffata non c'è solo fashion e business d'alto rango. A distanza di dieci anni da quel "Il bello d'esser brutti" in cui il Reverendo tornava a schierarsi dalla parte di una Milano che parla una lingua più strettamente autentica di quanto sia consentito conversare in un hotel a 5 stelle del centro, quel "ha le bretelle perché non gli piace portare le braghe calate a metà" torna più attuale che mai. È proprio in zona Montenapoleone che l'Inter decide di prendere in mano 'Il bello di esser brutti' di zio Ax e posizionarlo su un 45 giri che da lì a poco avrebbe cominciato a suonare la colonna sonora di un nuovo percorso. L'addio di Inzaghi è stato - più o meno - inaspettato e volendo soprassedere sulle ragioni, più o meno convincenti, valide o comprensibili del piacentino, il dato di fatto di fronte al quale sono stati messi Marotta and co lo scorso 3 giugno è stato quello di trovare un sostituto che potesse non continuare a percorrere il solco scavato dall'oggi allenatore dell'Al-Hilal, bensì ricostruire dalle ceneri ciò che il disastro di Monaco ha inevitabilmente lasciato. Sfida complessa, ardua e non per niente alla portata di chiunque, considerazioni che Marotta ha ben analizzato nel tuffo obbligato nel mercato degli allenatori, mare fortemente agitato e poco pescoso che non regalava grandi spunti. Fabregas, De Zerbi, Chivu sono i primi nomi, lo spagnolo su tutti, ma il nome dell'ex stella di Barcellona, Arsenal, Chelsea è servito quasi più a temporeggiare, regalando un 'go on' allo show della corsa a chi ne sa di più per il 'tutto fatto' che su Fabregas non è, non a caso, mai arrivato.
Dalla suggestione Fabregas, allenatore 'rivelazione' della scorsa stagione, a Cristian Chivu: promessa del calcio? Chi lo sa. Di sicuro è un affezionatissimo eroe dell'Inter di José Mourinho, esemplare irreplicabile di un calcio che oggi non solo non esiste più ma si fatica persino a ricordare sebbene sia lontano giusto qualche pagina addietro della storia di uno sport fatto di educazione, rispetto, abnegazione, sacrificio e umiltà. Caratteri che avevano forgiato quel gruppo finito col trionfare sotto il cielo di Madrid ancor più di doti tecniche e atletiche e che, non a caso, hanno finito col portarlo a incidere un pezzo di storia unico non esclusivamente per l'irripetibilità dell'evento, ma per quanto regalato ai milioni di tifosi del Biscione, capitale inquantificabile persino nei bilanci e nelle analisi numeriche. Connotati che hanno fatto di Chivu il personaggio giusto, quantomeno per chi alberga ai piani alti del The Corner, per ricominciare dopo il disastro stagionale nel quale la squadra di Inzaghi è incappata con il 5-0 di Monaco e la fuga in Arabia del piacentino, finito a correre il rischio di essere ricordato come colui che fallì il tentativo di mourinhismo evidentemente mal riuscito, e per ben due volte.
Eppure la piazza si spacca e diciamola tutta, anche comprensibilmente: i rischi di affidare una squadra finalista di Champions ad un allenatore che conta solo 13 panchine in Serie A e qualche anno di esperienza sì, ma solo nel settore giovanile, sono non alti, di più. Ripartire da un allenatore che ha oggettivamente ancora tutto da dimostrare, a sé stesso in primis, e molto da 'imparare', potrebbe trasformarsi in un suicidio sportivo come è stato definito da qualcuno. E comparando l'azzardo alla filosofia fin qui applicata dalla dirigenza nerazzurra spesso propensa ad affidarsi ai più esperti che ai giovani, gli interrogativi non diminuiscono. Va detto che la suddetta filosofia ha però cominciato ad andare in controtendenza già lo scorso anno con l'arrivo di Oaktree, reticente dinnanzi all'investimento Buongiorno (ad esempio) per via dei ventisei anni compiuti, età considerata 'tardiva' dall'HQ di Los Angeles. Diktat che vigerà anche nella sessione di mercato in arrivo e che viene inaugurata proprio con la scelta maestra dell'allenatore.
"Cristian Chivu non è un ripiego di Fabregas né di nessuno", ha tenuto a sottolineare Marotta in uno degli interventi ai media che hanno seguito la scelta di puntare sul tecnico romeno. Spiegazione che per quanto credibile non cancella di sicuro interrogativi e dubbi nutriti dai più cauti, memori del fail dell'all-in di qualche anno fa della Juventus con Pirlo, che non hanno peraltro ancora elaborato a sufficienza quindi superato la storica zavorra che il 5-0 di Monaco ha imposto ad ogni interista che si rispetti. Avrà, Chivu, temperamento e carattere adatti a sopperire all'oggettiva mancanza d'esperienza? Riuscirà a trasmettere all'Inter, con la stessa determinazione e determinanza, ciò che è riuscito a trasmettere a Parma in pochi mesi? La risposta chiaramente ad oggi è un grosso 'non lo so', condito da tanti 'speriamo di sì' e i cuori degli interisti si spaccano nelle fazioni di chi, sconfortato, non s'aspetta più nulla e di chi sostiene sia proprio l'ex terzino dal 26 sulle spalle il nome giusto per rilanciare la squadra, finita col farsi fagocitare da sé stessa nel più importante degli appuntamenti.
Grinta, cuore, anima, sfrontatezza, un briciolo di incoscienza e tanto interismo: tutte caratteristiche che, appunto, ben si allineano nel disegno che compone l'identikit dell'ex terzino dal caschetto in testa che vanta un cv umano che depone più di un semplice motivo che potrebbe dar ragione a Presidente Beppe. Certo, il condizionale è d'obbligo, ma il maniavantismo disfattista di chi ha già bocciato il classe 1980 ancor prima di vederlo firmare, echeggiato come al solito in maniera spropositata e feroce nell'epoca dei social funge persino da oppiaceo. Tenuti al guinzaglio dal nuovo oppio dei popoli, la combo calcio-social ci distrae forse da una banale quanto insindacabile realtà che vede chi scrive nella posizione di conoscere lo 0,1% di ciò che con superbia commenta. Naufraghi in un universo di opinioni, gli interisti si ritrovano intrappolati nella ragnatela di presunzione in cui si scambia la libertà d'espressione con la legittimazione d'idiozia: e se da un lato c'è chi criticamente e pure comprensibilmente nutre qualche dubbio, affidandosi cominque alla capacità di Marotta e all'interismo di Chivu, dall'altro lato c'è chi si lascia travolgere da tempeste di negatività, ancora una volta su una base di valutazione che va da 0 a 10 botox per cm di pelle, o di palmares in questo caso.
E nel bel mezzo di una potentissima crisi del calcio italiano, che rischia ancora una volta di crollare dalle fondamenta con l'ombra di una possibile ennesima esclusione dal Mondiale come apice catastrofico, nel Paese in cui lustrini e vetrine di facciata non reggono più la pochezza di sostanza, riesumare la bruttezza come segno d'identità e rivoluzione è un tentativo che vale la pena fare. Lo sa Marotta, lo sa Chivu: lo sa il presidente, che nella conferenza stampa di presentazione ha parlato di un allenatore non made in Italy, ma made in Inter. Ponendo l'accento sul fatto che Chivu è stato scelto in quanto ritenuto perfetto per portare avanti un discorso che negli ultimi anni ha comunque fruttato grandi soddisfazioni a tutto l'ambiente. E lo sa lo stesso allenatore che da quel percorso vuole ripartire facendo leva, prima ancora che sui trofei vinti o mancati, sul lavoro e sulla volontà di dare il massimo.
Chivu riparte da Milano, quella Milano alla quale non ha mai detto addio; e silenzioso, accoglie il regalo dopo aver sussurrato a sé stesso un "ci sono anch'io". È un azzardo? Sì. Ma ha ragione zio Ax, "l'uomo col caschetto se ne fregherà che il cielo sia bello o se pioverà...".
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