È strano questo maggio, fatto solo di ricordi, per tutti. Ognuno celebra l'anniversario di uno scudetto o di una coppa, i tifosi tirano in ballo finali perse o tricolori mancati. In molti hanno un 5 maggio nell'armadio, nessuno ha una notte a Madrid a sublimare la perfezione e l'unicità di un traguardo. Le peggiori sciagure calcistiche non sempre sono state seguite dalla capacità di raggiungere la vetta più alta che fosse poi in grado di rappresentare anche una sorta di redenzione. "Le sconfitte fanno più male di quanto facciano bene le vittorie, perché sono più dure da dimenticare", ha scritto Massimo Moratti nella sua lettera all'Inter in occasione dei 10 anni dallo scudetto di Siena. Di sicuro fanno parte di storie e vissuti che poi vanno alla ricerca delle proprie rivincite.

Ma giusto questo resta da fare, in questo strano maggio. Ricordare. Celebrare. Come abbiamo fatto anche tutti noi durante il lockdown, chiusi in casa a riguardare vecchie foto, di vecchie vacanze e vecchie serate. Immaginando già quanto bello sarebbe stato poi ritrovarsi di nuovo a vivere quei momenti. Il maggio calcistico è fatto anche di una strana attesa, tra chi guarda affascinato al modello Bundesliga, chi sarebbe disposto a vendere l'anima al diavolo pur di fare la stessa cosa e chi, invece, si pone qualche domanda, analizza protocolli e magari li definisce e li considera poco attuabili e concreti.

Il calcio italiano ancora non ha risposte, forse non si è ancora nemmeno posto, dopo oltre due mesi, le giuste domande. Nel mare di protocolli, regole e norme che vanno a disciplinare la ripresa di tutte le attività, il calcio, e la Serie A in particolare, pretendono di potersi a loro volta inserire. Immaginate però un calcio d'angolo e quello che succede in area di rigore, tra spintoni, trattenute e "abbracci" vari. Ora immaginate quegli stessi giocatori arrivati allo stadio con la mascherina e i guanti, dopo essere stati monitorati, controllati, aver viaggiato su un pullman sanificato ed essersi seduti a un metro di distanza, in spogliatoio, da tutti i compagni.

Quegli stessi giocatori che poi finite partite a allenamenti tornano a casa, frequentano persone, la famiglia, gli amici e magari vanno a bere un caffè in un bar dove il povero proprietario è costretto a sistemare i tavolini rispettando distanze che gli consentono di far entrare, se tutto va bene, un terzo o un quarto della clientela di prima. Il calcio invece pretende regole a parte semplicemente perché se parliamo di calcio parliamo automaticamente dell'impossibilità di rispettare quelle normative che invece ad altri lavoratori si chiede di rispettare e che si finisce, più o meno direttamente, per offendere. Ecco perché il calcio non è un'attività e nemmeno un lavoro come gli altri (ammesso e non concesso che lo si sia mai pensato).

Dobbiamo tutti imparare a vivere e lavorare in un modo nuovo, almeno per ora. In un modo che non piace a nessuno e che sicuramente, anzi lo ha già fatto, farà danni a molti. Sicuramente troppi. C'è chi dice che non ha senso fermare questa stagione perché fermarsi ora significa fermarsi per almeno un anno, perché tra due mesi c'è la stagione nuova e nulla risulterebbe cambiato. In realtà, lo abbiamo imparato molto bene, in due mesi si stravolge tutto.

Due mesi sono abbastanza per progettare e pianificare non solo per i club della serie A ma anche per tutti gli altri, adeguati allenamenti e spostamenti, avendo cognizione di causa dell'andamento dei contagi e muovendosi più in sintonia con la realtà del Paese, con le sue difficoltà e i suoi progressi. In due mesi può cambiare il mondo, la percezione che di esso abbiamo e persino il nostro modo di viverlo. Ed è esattamente quello che è successo.

Tra due mesi non si giocherebbe il calcio di prima, ovvio. Ma si potrebbe arrivare a quel momento con una preparazione e un protocollo diversi, senza aver spremuto all'inverosimile i giocatori e senza averli mandati in campo in condizioni fisiche precarie, con situazioni contrattuali incerte e motivazioni differenti (pensiamo, ad esempio, a fine luglio, lo spirito e l'impegno che ci potrebbero mettere squadre che non hanno nulla da giocarsi affrontandone altre che magari lottano per lo scudetto).

Ripartire è doveroso e convivere con il virus anche. Così come capire le priorità e le necessarie attese. Per qualcuno priorità sono diritti televisivi o scudetti che mancano da vent'anni. Ma non per tutti. Se lo spettacolo deve andare avanti, si pensi però anche a che tipo di spettacolo si è in grado di offrire: perché se i tuoi stessi tifosi pensano che questo calcio non sia calcio, e molti dei tuoi stessi protagonisti di permettono di avanzare dubbi o paure, significa che rallentare, fermarsi e progettare può diventare un'occasione nuova. E non per forza una perdita economica e d'immagine.

Sezione: Editoriale / Data: Dom 17 maggio 2020 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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