Non è importante quanto aspetti, ma chi aspetti. Meglio ancora in questo caso, cosa aspetti. E l’attesa di ritornare a riempire gli stadi è stata tanta, stressante, deprimente a volte frustrante. Troppa oseremmo dire. Un’attesa improvvisamente sfumata in mezzo alle nuvole di colori esplose tra le mura dell’Olimpico lo scorso venerdì, quando la Nazionale di Roberto Mancini ha letteralmente annullato la Turchia mettendo in saccoccia i primi tre fondamentali punti. Un bottino pieno sottoscritto dal Immobile e Insigne (dopo il 'regalo' di Demiral), con la complicità di quel 18 azzurro da queste parti ben conosciuto, quella sera particolarmente ispirato. Un re-start degno delle aspettative che lascia auspicare bene e allora sì, buona la prima per gli italiani che dopo quel Turchia-Italia non hanno smesso di sorridere. Almeno fino a quasi ventiquattro ore dopo. Dal tripudio dell'Olimpico, di Piazza del Popolo in festa, di Roma blindata ma in visibilio infatti non erano trascorse neppure ventiquattro ore prima che allo Stadio Parken di Copenaghen succede l'impensabile. Immagini che non lasciano molto spazio all’immaginazione, ma solo allo sgomento prima, alla speranza dopo. Il mondo intero si zittisce, inerme, sconvolto, confuso, a tratti - per quindici lunghissimi minuti - disperato.
Danimarca-Finlandia, 42esimo minuto, punteggio sullo 0-0 con una Danimarca con un po’ di gas in più rispetto ai cugini. Il 10 danese, nonché 24 interista aveva fino a quel momento già messo in mostra le sue qualità, incursioni, passaggi pennellati ai compagni, due tiri e persino un palo. Manca qualche minuto al duplice fischio, rimessa laterale per i padroni di casa, tocco di petto di Eriksen che tenta di scambiare con Maehle, riuscendo ad impattare il pallone ma solo un attimo prima di accasciarsi a terra e lasciare in mondovisione il popolo del calcio (ma non solo) col fiato sospeso e le lacrime che rigano il viso di chiunque.
Immagini che continuano a rimbalzare nella mente e rievocano brividi e pelle d’oca. La stella più luminosa della Danimarca sembra fare un scherzo a sé stesso ma per niente simpatico. Il più lucido è Simon Kjaer che si fionda a soccorrere il compagno, dando lui i primissimi soccorsi; il più protettivo, insieme al capitano, è Delaney che mentre Kjaer tenta di liberare le vie aeree di Eriksen inizia a formare un muro umano protettivo attorno al corpo di Christian, inerme a terra ma per niente domo. Persino nella più totale incoscienza, con il battito sempre meno percepibile e un cuore ad un passo dal cedimento totale, il centrocampista interista "si è aggrappato alla vita" come ha ammesso il medico della Nazionale danese. "Abbiamo iniziato a rianimarlo, per fortuna Christian non ha ceduto e si è aggrappato alla vita" ha detto prima di lodare il pronto intervento di giocatori e medici che si sono immediatamente adoperati per fare "ciò che andava fatto" e che è servito per "riavere Christian".
Il biondino nerazzurro dagli occhi nocciola e il carattere timido, tante volte additato come "troppo moscio" per la garra tipica contiana, si è aggrappato alla vita. Non ha mollato, non si è lasciato abbattere, neppure mentre le sequenze dei suoi ventricoli si contraevano in maniera totalmente scoordinata, irregolare e inefficace e perdeva conoscenza e coscienza. Gli occhi sbarrati dei presenti sugli spalti, le urla della fidanzata, il pianto dei compagni e il silenzio del resto del mondo, tutti uniti da quel senso di impotenza perfettamente coscienti di quello che stava per accadere. Tutti tranne Chris, steso sul prato del Parken Stadium, sospeso in una sorta di limbo dal quale è riuscito a venir fuori, all’ultimo minuto come quel gol su punizione al 97esimo.
Il ragazzetto timido non ci sta, calcio al pallone più pesante della sua vita e via col gol più significativo e mai così determinante. Tra un massaggio cardiaco e un "dai Chris", il polso torna ad essere più regolare e d’improvviso le palpebre si riaprono, a fatica ma si riaprono. "Sta lottando" scrive qualcuno su una chat, una lotta corpo a corpo con se stesso come mai prima e che come mai prima lo ha visto trionfare con la standing ovation non dei suoi tifosi, non del suo popolo ma del mondo intero, alleggerito da un solo sguardo, malconcio e provato ma sveglio.
Un macigno sul cuore che si allieva con il passare delle ore, le rassicurazioni da parte di agente, Federazione, medici e dello stesso giocatore che si stringe al dolore ‘procurato’ ai compagni e con una videochiamata dall’ospedale chiede loro di mettere da parte lo spavento e l’angoscia e tornare a giocare. Non manca neppure il pensiero rivolto alla grande famiglia interista alla quale manda un messaggio - come spiega Marotta - in serata per rassicurarli in merito alle sue condizioni e ai quali auspica un pronto ritorno in campo. Ritorno in campo in cui tutti chiaramente sperano, ma per ovvi motivi da valutare. Secondo il primo bollettino medico divulgato dalla Federazione danese infatti le cause del malore restano ancora poco chiare, motivo per il quale fare pronostici è ad oggi pressoché impossibile. Ma "Eriksen è un campione e noi ce lo teniamo stretto" ha detto l’ad nerazzurro ieri in collegamento con la Rai, e se c’è da attendere lo attenderemo ancora una volta, con pazienza come nei mesi in cui è stato atteso per un adattamento che ha tardato ad arrivare ma è arrivato e nella più vivida speranza di poter tornare ad ammirarlo in campo a dipingere punizioni come quella del 97esimo di quel 26 gennaio, oggi come allora non è importante quanto aspetti ma chi aspetti, consci del fatto che della rosa oggi sul tetto d’Italia, il timido numero 24 ci ha fatto amaramente pentire di tutte le volte in cui è stato definito 'con poca grinta' dimostrandosi il lottatore decisamente più grintoso mai avuto.
Lotta e vinci insieme a noi. Oggi, meglio di allora, l'Inter ti aspetta.
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Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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