Prima regola dello Sky Calcio Club da quando Massimiliano Allegri è diventato membro onorario: non parlare mai di expected goals. Oppure farlo per banalizzarne il valore così che tutti possano dire la loro sul calcio, come al bar. Un ragionamento, quello dell'allenatore sei volte campione d'Italia, che non tiene deliberatamente conto dell'evoluzione del gioco più bello del mondo, che mantiene in saecula saeculorum questo status perché ha sì regole semplici ma è anche il più imperscrutabile tra quelli inventati. La bellezza di uno sport che può essere apprezzata con gli occhi di un bambino e al contempo vivisezionata da un equipe di scienziati. Sì, perché, mentre in diversi angoli del mondo c'è chi disquisisce dei misteri del pallone per diletto, al Manchester City hanno assunto quattro astrofisici da inserire nel team di analisi dei dati della galassia City Football Group. Probabilmente un'esagerazione, un peccato di hybris verso la Dea Eupalla che troverà sicuramente il modo di vendicarsi di Guardiola, l'allenatore più divisivo dai tempi dell'eretico Arrigo Sacchi.

Nel corso degli anni, il catalano ha fatto proseliti ma ha radunato anche legioni di odiatori che in vari momenti hanno minimizzato la sua rivoluzione con slogan del tipo 'ha sempre allenato grandi squadre', 'senza Messi non ha più vinto la Champions'. Affermazioni che non tolgono nulla alle conquiste passate e alla legacy futura di Pep, ma anzi fanno regredire la discussione verso la più grande ovvietà sul tema: il calcio appartiene ai giocatori. Il che, per gli anti-guardioliani, vorrebbe dire che gli allenatori devono solo fare meno danni possibili, scaricando la maggior parte delle responsabilità a chi veramente decide le sorti di una partita andando fisicamente in campo. "Oggi purtroppo i giocatori sembrano diventati uno strumento per dimostrare che gli allenatori sono bravi. L'allenatore è bravo quando vince e quando crea valore", la dichiarazione manifesto di Max nell'ospitata domenicale di Sky, una massima da appendere in cameretta per i sostenitori del calcio come scienza inesatta. Per questo gruppone di allenatori, l'unico metro di valutazione è rappresentato unicamente dal risultato, da raggiungere empiricamente senza gli schemi ma con la tecnica e la tattica individuale. Insomma, la giocata batte il gioco su tutta la linea, un pensiero comodo quando si allenano dei campioni. Il problema è che in certi contesti come la Champions si confrontano squadre d'élite, contro le quali non basta mostrare i muscoli del 'valore assoluto'. L'equazione matematica, per rimanere nel campo delle scienze dure, è facile: se a volte le giocate sono superiori al gioco, le giocate esaltate all'interno di un'organizzazione sono più efficaci di quelle estemporanee. Ecco perché Messi e Ronaldo continuano a vincere 'solo' i Palloni d'Oro, ma sono a digiuno di Coppe Campioni dal 2017-18.

"Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia", sentenziava Hendrik Johannes Cruijff, profeta del calcio totale. 'Totale', in questo discorso, è la parola chiave, nel senso che ogni giocatore è coinvolto in un'idea di calcio fluida tra attacco e difesa. Non si ragiona più per compartimenti stagni, dove l'organizzazione difensiva permette la libertà di espressione di chi ha più estro. Da anni, ormai, le due fasi di gioco non si possono più scindere, ecco perché quando osserviamo i giocatori top-class non riusciamo a etichettarli con un ruolo specifico. Sono all-around player, come dicono dall'altra parte dell'oceano, ovvero sono in grado di fare bene tante cose in diverse zone del campo. Il fatto è che, per quanto talento possa essergli stato regalato da madre natura, non nascono così ma arrivano a essere quel tipo di interpreti completi grazie al lavoro dell'allenatore. Gli esempi pratici arrivano, soprattutto, dal solito Guardiola: Lahm centrocampista centrale, De Bruyne mezzala a tutto campo, Cancelo terzino-trequartista e Gundogan centravanti sono solo alcune delle trasformazioni di giocatori estremamente dotati che si sono reinventati presto o tardi nella loro carriera con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ovvio che non possa trattarsi di semplice fortuna, dietro c'è un lavoro di cui possiamo solo godere prima di sforzarci di studiarlo. C'è il momento in cui il talento incontra l'opportunità di essere allenato da Guardiola, unico nel suo genere, il quale anche recentemente non ha nascosto di essere un privilegiato. Quando gli è stato chiesto come i suoi Citizens siano riusciti nell'impresa di realizzare 19 vittorie di fila, Pep ha risposto candidamente: "Abbiamo molti soldi per comprare tanti giocatori incredibili". La tesi massima utilizzata dai suoi detrattori per levargli ogni merito diventa l'ammissione più sincera di un allenatore che è diventato maestro di molti colleghi contro la sua stessa volontà: "Senza giocatori di buona qualità, non possiamo farlo", ha aggiunto l'ex Barcellona. Potrebbe essere tranquillamente una frase di Allegri o di chiunque abbia un briciolo di buon senso. Però l'ex Juve e Milan, confondendo la fine con il mezzo, si ferma all'apparenza delle cose con la pretesa di volerne individuare la natura assoluta e ultima. Una metafisica del calcio paradossalmente fondata solo sull'esperienza diretta e la conoscenza sensibile, spesso tramandata dai 'vecchi'.

In due anni sabbatici, privato del lavoro quotidiano del campo, Allegri è diventato quello che ha sempre evitato di essere: un teorico. Uno spettatore che deve autoinfliggersi la visione delle partite che lo annoiavano quando era in attività. In tutto questo tempo passato sul divano, Allegri ha potuto anche farsi un'idea sull'Inter di quell'Antonio Conte, collega a cui cedette lo scettro di re d'Italia nel 2012, per poi riprenderselo tre anni dopo approfittando della sua assenza. "Vedendo dall'esterno, soprattutto dopo l'uscita dalle coppe, l'Inter è una squadra che può giocarsi un quarto o una semifinale di Champions. Conte sta facendo un ottimo lavoro, credo abbia le potenzialità per fare una grande Champions il prossimo anno", ha detto Max. Lui che ha intrecciato spesso il suo destino con Conte, tanto che si parlò dell'ipotesi che ne potesse raccogliere l'eredità prima che a Villa Bellini fosse firmato il compromesso storico tra il tecnico leccese e Suning. Facendo del cazzeggio creativo, come direbbe lui, si potrebbe provare a pensare a come sarebbe stata l'Inter 'metafisica' di Allegri. Probabilmente avremmo visto Vidal nel ruolo di incursore dietro le due punte, la difesa a 4 e Perisic o altri interpreti adattati nel ruolo di terzino. Chissà come sarebbe stata la convivenza con Eriksen, e magari ora parleremmo di un'Inter prima in campionato ed eliminata agli ottavi di Champions League. Guardando il sorteggio di Nyon, che ha abbinato il Gladbach (squadra qualificata come seconda al posto dei nerazzurri) al City, avremmo assistito a un'altra doppia sfida tra Allegri e Guardiola. Niente scontri filosofici, solo il rettangolo verde, dove il bilancio dice 3 vittorie per Pep, 3 pareggi e zero successi di Max. Perché alla fine è sempre il campo a dire la verità, che non può essere scoperta né attorno al tavolo di un bar né tanto meno guardando solo la tecnologia che ha la presunzione di mandare i missili sulla luna. Serve equilibrio. E qui Allegri ha ragione.

Sezione: Editoriale / Data: Gio 25 marzo 2021 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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