Zlatan Ibrahimovic non è uno come gli altri. Uno che si presenta nello spogliatoio dell'Ajax da ragazzino con un 'io sono Zlatan, e voi chi cazzo siete?' non può essere uno come gli altri. Da quando ha tradito l'Inter lasciandola sola nel momento di difficoltà per poi pagare un conto salatissimo con i suoi ex compagni che alzavano la Champions sconfiggendo in semifinale quel Barcellona dove era andato per vincerla in carrozza, quella coppa - da uomo vile e senza spirito di leadership vero e proprio -, ho sempre pensato che Zlatan andasse valutato come il classico bulletto che fa il forte fuori, ma dentro di sé e in realtà debolissimo. Non l'ho mai odiato, ricordo ancora con piacere le sue due gemme di Parma quando ci restituì un tricolore pesante e le sue innumerevoli magìe, non aveva mai giurato eterno amore e non aveva mai baciato la maglia. Era semplicemente scappato consapevole di non essere in grado di essere ricordato come 'quello che ha fatto rivincere la Champions League all'Inter dopo 45 anni'. In merito, ricordo ancora con piacere un editoriale di Beppe Severgnini proprio nei giorni in cui lo svedese fu ceduto al Barça: "Ibra, pensaci. Se vai lì e vinci la Coppa, tutti diranno per sempre che è stato il Barcellona a far vincere la Champions a Ibrahimovic. Se invece rimarrai e la porterai a Milano, sarà stato Ibrahimovic a restituire il trofeo all'Inter". Ibrahimovic è andato, eppure nessuna delle due ipotesi si è verificata.
Quella Coppa l'abbiamo vinta noi e senza di lui. C'è stato ancora più gusto, inutile nasconderlo, immaginarlo sul divano a guardare Zanetti con la Champions tra le mani provoca tutt'ora discreta goduria nel tifoso interista. "Avrà cambiato canale, magari dando un occhio a C'è posta per te", mi sussurrava qualcuno in quei momenti. Eppure, lui non ci aveva mai voluti illudere. Ibra è sempre stato un professionista straordinario e fermamente tale, non una bandiera ma un mercenario in senso buono, quello che dove va vince il campionato e lascia un buon ricordo, ma senza farti mai pensare nemmeno per un secondo che possa diventare il tuo simbolo per il resto dei giorni. Il suo passaggio al Milan infatti non è stato una sorpresa. Da lui devi aspettarti di tutto, delle questioni di cuore se ne frega, è uno zingaro - anche qui, in senso buono - dentro, uno che mette in primis i soldi e le vittorie, senza calcolare quale maglia indossi e chi canti il suo nome. Forza sul campo, debolezza nello spirito. Perché ancora una volta Zlatan, che si era presentato con un "quest'anno vinciamo tutto", alla fine si è portato a casa il solito scudetto che lo aveva nauseato (parola sua, quando lasciò l'Inter: "Arrivo in Spagna perché ero stufo di vincere il campionato italiano"), fallendo per l'ennesima volta l'obiettivo Champions.
Per intenderci, però, non abbiamo mai visto il passaggio di Ibrahimovic al Milan come un 'sommo tradimento'. Non è stato come per Ronaldo, che sentivamo come un figlio, lì sì che ti fa male lo stomaco ogni volta che lo vedi in campo con la casacca rossonera. Eppure, Zlatan è riuscito a far schizzare il livello d'odio nei suoi confronti con l'ultima autobiografia. Pur di vendere il libro, tra Svezia e Italia continuano a circolare valanghe di anticipazioni clamorose su quanto scritto dall'attaccante di Malmoe. Strategia ben precisa sua e di chi gli gira intorno che sta riuscendo alla perfezione per chi si lascia ingannare - tanti, troppi -, ma che non è gradita a chi il calcio lo vive ogni giorno. Si passa dalle squallide frasi sui clan dell'Inter fino a frecciate inenarrabili verso un uomo inappuntabile come Pep Guardiola, o corse in auto a velocità supersoniche per 'farsi bello'. La perla sono le frasi d'affetto per la Juventus e Luciano Moggi, l'imbarazzante volontà quasi di cancellare il suo periodo in nerazzurro ricordando continuamente come in realtà già nel 2006 sarebbe dovuto passare al Milan. Noi il suo sorriso ad Appiano però lo ricordiamo benissimo, ricordiamo che tifava Inter sin da bambino, ricordiamo queste sue parole che ovviamente si rivelano per la maggior parte frottole. Ibrahimovic è un professionista esemplare e straordinario, ma non è un uomo all'altezza della sua fama. Zlatan è debole dentro, ha un incubo che suona più o meno così che gli turba la carriera.
"Sono stufo, il calcio non mi diverte più come una volta", aveva detto non più tardi di un mese fa. Una buona ragione per sperimentare quindi la sua abilità da scrittore. Chi leggerà il suo testo saprà valutarlo, ma chi ha capito qual è l'intento difficilmente prenderà l'autobiografia dello svedese. Sparare a zero per vendere, per cancellare il passato che ferisce e per sputare fuori la debolezza che si ha dentro non è un comportamento idilliaco. Duole dirlo, ma hai sbagliato ancora, Ibra. Magari venderai qualche copia in più, però il tuo orgoglio sarà macchiato e chi ha lavorato con te non gradirà le mitragliate che gli hai detto. E occhio, contro il Barça, perché gli uomini di Guardiola non saranno contentissimi di rivederti. Magari chi pensava di prendere il libro, prima dia una ripassata a 'Se questo è un uomo', dell'immenso Primo Levi. Quella è roba che fa bene leggere, che fa bene alla natura umana, non le corse e le rivelazioni del piccolo Zlatan. Le strategie e le sparate non sono gradite. Ah, Ibra, sul titolo ogni riferimento è puramente casuale...
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