È bastato un brutto mese di dicembre a far tornare in mente l’andamento generale del 2017 ai tifosi nerazzurri, un ricordo piacevole come un rigurgito amaro. Il pari con la Lazio di ieri sera, certo, è incoraggiante, e in qualche modo l’Inter sembrava sul campo più vicina alla versione vista prima della gara col Pordenone, rispetto a quell’imbarazzante accozzaglia di timidi interpreti e movimenti a vuoto che è andata in scena in seguito. Davanti, però, pare davvero finita un’epoca, seppur breve, in cui Icardi, Perisic e Candreva erano incastrati in un automatismo, e tutte le occasioni da gol, o quasi, venivano fuori dalla medesima successione di tocchi. C’era stato un precedente, di gran lunga più illustre, di un’Inter morbosamente attaccata a un solo schema offensivo, senza il quale era sostanzialmente incapace di andare in gol: era la prima Inter di Mourinho, e gli interpreti erano un debordante Maicon e la torre Ibrahimovic, che via via riusciva a far segnare chiunque passasse dalle sue parti. Appunto, un altro film: pure se l’avversario conosceva bene le mosse dei due, fermarli restava ugualmente un’ipotesi remota. Il guaio di oggi è appunto che si è tornati a non segnare.
La difesa, in qualche modo, è sembrata di nuovo in possesso di quella lucidità essenziale, lontana dal poter costituire una barriera invalicabile, ma comunque in grado di non costringere Samir Handanovic agli straordinari: dietro, insomma, Ranocchia sta sciorinando serenità e perfino autorevolezza, a tratti, e ciò basti a ricordarci che si può essere forti o meno forti, nei piedi come nella testa, ma difficilmente si arriva a vestire la maglia dell’Inter per sbaglio; accanto a lui, Skriniar sembra meno divino e più umano di quel colosso gentile ammirato nelle prime 16 partite di campionato, ma poi pensi che, se questa è la sua peggior versione, c’è da star tranquilli e gridare sereni al colpo dell’anno. Il guaio, però, è un altro, la malattia è tornata: davanti non si segna.
Si è già evidenziato come la ripetitività sia un fattore determinante della scarsa vena realizzativa nerazzurra: basta fare densità in area, accorgimento guarda caso usato da Udinese, Sassuolo, Milan e Lazio, e Icardi si trova improvvisamente impossibilitato a ricevere il cross, o ad avventarvisi con tempismo; sulla respinta, poi, magari c’è il centrocampista di turno, ma è assai probabile che il suo tiro finirà appunto per infrangersi su uno di quegli avversari che popolano fittamente i 16 metri, né da queste parti sono più di casa gli Stankovic e gli Sneijder, avvezzi a trovare il varco anche laddove l’occhio umano non era capace di scorgerlo. Non basta, però. Perisic e Candreva sono in un’evidente fase involutiva, col croato che oramai ha cancellato i consueti, trascinanti strappi dal proprio vocabolario tecnico: si limita ad attendere lì, sul secondo palo, se in qualche modo Candreva ha sbagliato il traversone, e dunque quella palla lunga può riguardare la sua testa o il suo piede, per tentare una conclusione o una sponda verso il centro. L’azzurro, dal canto suo, non piacerà mai troppo al suo pubblico, ché deve saltarne almeno due per arrivare sul fondo, ma poi il primo dei due ha fatto in tempo a tornare, dunque occorre risaltarlo, e intanto al centro son tutti belli e posizionati, Icardi è introvabile dal cross, il cross si spegnerà altrove.
È la solita solfa, e l’evidente appannamento dei due, appunto, non aiuta. Nella direzione di una novità, forse, va il tentativo di Spalletti nella ripresa, col quale il tecnico ha palesemente provato a mischiare le carte, invogliando i suoi uomini offensivi a cercare gli spazi laddove ce ne fossero senza restare vincolati allo scacchiere tattico: così, Perisic veniva al centro, Candreva a sinistra, e poi ancora al contrario con maggiore continuità e imprevedibilità di quanto già non avvenisse in passato. Abbiamo già scritto, però, come il compito e il lavoro strenuo dei due esterni vada premiato con l'arrivo di un uomo di qualità, che sappia servire loro stessi per un cross comodo e, ogni tanto, cercare la variante di una palla centrale per Icardi, in modo che sulla vena delle due ali non gravi l’intera riuscita della macchina offensiva nerazzurra. Lo stesso Cancelo, ben diverso rispetto a D’Ambrosio in merito all’apporto offensivo, potrà garantire una nuova possibilità con le sue sovrapposizioni: resta da capire cosa accadrà al ritorno del terzino campano, ma è possibile che quel giorno sarà per Spalletti un ottimo giorno in cui sperimentare una novità. In caso contrario, che bello, avremo un’alternativa in più.
Eccolo, il punto dolente. Quando Ranocchia, sul finire del primo tempo, sembrava dover finire fuori gioco a causa del pestone di Gagliardini, tutti abbiamo tremato al pensiero di un Santon centrale d’emergenza, con Dalbert chiamato a reggere per un’intera frazione su quella fascia. La rosa nerazzurra è colpevolmente corta e il mercato, che non può essere stroncato perché Skriniar è colpo memorabile, e Vecino e Valero son due garanzie, resta comunque un manufatto iniziato bene e poi lasciato lì a metà; la pecca Dalbert, peraltro, è ancora in essere, ma il caso Cancelo dimostra che la pazienza è sempre d’obbligo. Il sipario è calato, in ogni caso, ed è accaduto tra i mugugni, che giustamente si sarebbero tramutati in fischi assordanti in caso di sconfitta. È la comprensibile reazione di chi ha paura, di chi teme l’ennesima delusione (meno comprensibili, invece, appaiono i fischi all’ingresso, sissignori all’ingresso, di Joao Mario), così come è tollerabile il brutto sfogo di Candreva perché, quando le cose non vanno e tu comunque non smetti di correre, certi apprezzamenti puoi mal digerirli. Al calo del sipario, insomma, non si è né troppo tristi né felici. La trasferta di Firenze, l’ultima prima della sosta, dovrà aprire un gennaio di lavoro intelligente, l’unica possibilità per il successo quando non puoi comprarti tutto ciò che vuoi.
Autore: Antonello Mastronardi / Twitter: @f_antomas
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