C'è anche Federico Dimarco tra gli undici giocatori candidati alla vittoria del Premio Puskas, riconoscimento che la FIFA assegna ogni anno al gol più bello della stagione. Secondo il massimo organismo calcistico internazionale quello dell'esterno dell'Inter segnato il 12 novembre 2023 ai danni dell'incolpevole Turati, distante dal tiro ben 56,47 metri, è di sicuro nella top 11 delle prodezze più straordinarie nel periodo che va dall'agosto 2023 all'agosto 2024. La parabola disegnata dal piedino fatato del 32 di Inzaghi ha pietrificato i quasi 71.000 presenti al Meazza (vedi la sconvolta sulle prime ed estasiata dopo espressione di Yann Sommer come reazione al gol) scolpendo la sua firma nella storia della Beneamata. 'Cosa ha fatto Dimash? Cosa ha fatto?!?' ha pensato chiunque fosse sintonizzato su quell'Inter-Frosinone, uno stupore generale racchiuso da quell'"ooh" di incredulità sollevatosi all'unisono dagli spalti di San Siro che in un 'banale' match di novembre metteva a referto un'altra memorabile giornata da inserire negli annali. Una parabola perfetta che il ragazzo di Calvairate cresciuto nei campetti di Interello ha pensato e provato con la leggerezza del ragazzetto divertito nel campetto sotto casa ed eseguito con la qualità di uno degli interpeti più forti a livello continentale di quel ruolo.
"Ho visto il movimento di Dumfries dall'altra parte, poi ho visto il portiere fuori dai pali e ho provato" ha detto a fine partita, con sicurezza, orgoglio e anche un pizzico di perdonabile spocchiosità, mettendo immediatamente fine al dubbio se in origine del tiro volesse crossare o tirare, prima di lasciare spazio al Federico cresciuto tra gli andirivieni tra Affori Nord e il suo polo opposto della città: "Per fortuna che la palla è entrata, altrimenti avrei preso tanti di quegli insulti che neanche immagino" ha ammesso con tanto di sorriso di chi inizia a pregustare un anno con ghigni soddisfatti e pochi sfottò da schivare. "Sicuramente è stato uno dei miei gol più belli in carriera" ha chiuso il discorso senza sapere, o forse solo rendersi conto al momento, che oltre ad essere uno dei più belli della sua carriera quella chirurgica rete entrava di forza tra i 'più belli' di diverse classifiche e categorie. E chissà se mentre rilasciava quell'intervista, rispondendo inconsapevolmente ai detrattori - oggi noti come haters - che si erano immediatamente attivati per 'screditare' il gesto tecnico del classe 1997, a loro avviso fortunato nel tentativo di servire un assist a Dumfries e finito solo fortuitamente all'appuntamento con la storia, sapeva che a distanza di un anno e qualche giorno quel riuscitissimo 'tentar non nuoce' sussurrato a sé stesso sarebbe entrato a far parte della lista dei gol più belli dell'anno e in lizza per il riconoscimento più alto.
Sguardo rapace, velocità di pensiero, pizzico d'incoscienza e deliziosa quanto rara qualità scorrono a mo' di sottotitoli invisibili mentre in loop si guarda e riguarda quel 43esimo minuto del match contro i ciociari. Un mix tra sopraffine visione calcistica ed educazione tecnica che pervade l'esterno interista dagli occhi fino al collo del piede sinistro che finisce con l'impattare, con una delicata quanto possente scoccata, un pallone sul quale schiaffa addosso tutti i vent'anni di sudore, sangue, pianti e pugni sui muri addietro spedendolo lontanissimo, fino a ben oltre le spalle di Turati. Quando intuisce, è già troppo tardi per il portiere milanese, peraltro anche lui cresciuto nelle giovanili dell'Inter e notoriamente tifoso nerazzurro, che non si macchia di colpevolezza né nella posizione eccessivamente avanzata rispetto ai pali tantomeno nell'impossibilità di arrivare sulla bomba sganciata dal lato opposto della metà campo. Vent'anni di calcio in cinquanta metri che raccontano tanto di Federico Dimarco che dopo aver riflettuto e realizzato cosa aveva appena regalato ai suoi tifosi ha scritto sui social: "Questo tiro parte da Porta Romana, passa per Interello, Ascoli, Empoli, Sion, Parma, Verona e arriva nello stadio dei miei sogni". Una frase dalle migliaia di sfumature che incornicia in un quadro degno del British Museum quella pennellata morbida, ma allo stesso tempo decisa, densa e maledettamente vibrante con la quale il figlio della Nord è riuscito a dipingere il miglior ritratto che potesse regalare di sé stesso. Morbido, senza violenza, con grazia, in silenzioso e inaspettato guizzo ma con una risolutezza decisiva e senza dubbio liberatoria e l'istinto anche un po' visionario e di sicuro audace di chi non smette di vedere possibilità laddove nessuno è disposto a cercarle, il ragazzino milanese cresciuto tra sacrifici, lacrime, porte in faccia e tanta resilienza sbatte in prima pagina quello che lo scudetto sollevato qualche mese più tardi avrebbe a tutti gli effetti consacrato come il manifesto dell'interista.
Infortuni, sfortuna, momenti che giravano male, poco minutaggio e altrettanti pochi 'investitori' che puntavano su di lui, complicazioni dentro e fuori dal campo, momenti di basso e pochi in alto, fino al fondo prima della spinta per la risalita. Un fondo buio, umido, pastoso, quasi avvinghiante, dai tratti malmosi che non hanno spaventato il Federico cresciuto nei piovosi campetti di cemento e fango di periferia e finito persino nei gelidi campi d'addestramento con le forze speciali francesi come punizione voluta dal presidente del Sion ai tempi della militanza nel club elvetico. E proprio dopo l'infausta, traumatica ma formativa parentesi in Svizzera inizia una vita che con sacrificio e pazienza cambia i connotati a Verona e sboccia con Simone Inzaghi in una prima formativa, traumatica, devastante e di certo temprante stagione che si conclude con la perdita dello scudetto all'ultima giornata nel testa a testa con il Milan e prosegue con la sconfitta in finale di Champions nella notte di Instanbul l'anno successivo. Due grandi lutti intervallati sì dal paio di Coppa Italia e Supercoppa vinte, ma che hanno scalfito e ferito nel profondo le anime degli interisti, specie quelli cresciuti a pane e salamella e arti ghiacciati dopo gelide serate iniziate con birra e borghetti e finite a sperare in una 90 non troppo affollata, di corde vocali sfinite e alibi per evitare le interrogazioni dell'indomani. Cresciuto a Milano tra i privilegi di chi può sognare in grande già da piccoletto con la prima divisa indossata all'Academy e la consapevolezza di essere un piccolo nessuno disciolto in un universo di alternative migliori di te e l'inevitabile peso della responsabilità di non fallire, Dimarco si ritrova a macinare km su km su una fascia che d'improvviso diventa più familiare di quel secondo verde che ora vede da prospettiva invertita e non a caso, all'indomani della realizzazione del più bello dei sogni che un milanese interista possa nutrire, ha compresso tutte le emozioni che l'amore per l'Inter gli ha regalato in poco più di cinque minuti di cortometraggio che qualche giorno fa ha vinto il premio di miglior lavoro web all'International Sport Film Festival.
Dopo 3 Supercoppa, 2 Coppa Italia, 1 Scudetto e una finale di Champions, Federico Dimarco è oggi cliente scomodo per gli avversari e pilastro anche della Nazionale di quel Luciano Spalletti che ai tempi della panchina nerazzurra non ebbe mai il piacere di avere ad Appiano Gentile, dovendosi limitare ad osservare da avversario quell'altra prodezza che la diceva lunga sulle sue potenzialità segnata in quel lontano Inter Parma della stagione 2018/19 e che oggi ritrova da allievo. Diventato a tutti gli effetti colonna portante dell'Italia, il ventisettenne è oggi uno dei giocatori più in vetrina del Paese e dell'Inter, di cui è non solo gioiellino pregiato, ma anche icona e potenziale bandiera e leggenda. Potenziale che l'interista ha tutto da scrivere ed esprimere, partendo magari da stasera contro la Fiorentina in uno dei più inaspettati bigmatch serviti dalla strana stagione in corso, stagione dai pochi padroni e dalle tante pretendenti che l'Inter dovrà sparigliare con i suoi alfieri migliori.
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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