"And all the roads we have to walk are winding
And all the lights that lead us there are blinding". 

"Tutte le strade che dobbiamo percorrere sono tortuose e tutte le luci che illuminano la via sono accecanti". Esattamente come quella che porta a Istanbul. Una strada tortuosa, tanto... Ma altrettanto piena di luce, una luce più che accecante. Parola di, non una, non due, milioni di interisti e non solo quelli che martedì scorso hanno avuto la fortuna di sollevare il boato di San Siro e neppure quelli che qualche ora dopo riempivano le strade del capoluogo lombardo tingendolo di nerazzurro. A sottoscriverlo sono pure tutti quelli che al Meazza non ce l'hanno fatta ad entrare e che a Milano, probabilmente, non ci sono neppure mai stati. Perché l'Inter è di tutti, ma non per tutti, come recita il vecchio caro claim 'not for everyone'. Non è per i deboli di cuore ma soprattutto per i deboli di spirito ma neanche e soprattutto per i sani di mente e per chi campa di viscerale amor proprio. Non esattamente, no. Per essere interista, devi per forza aver dentro un pizzico di masochismo, ma prima di ogni cosa devi essere un gran sognatore e inguaribile romantico per antonomasia. E per i romantici, i sognatori, i masochisti e i combattenti non esistono strade facili e poco tortuose. Lo sanno bene gli interisti, quelli che non hanno mai smesso di seguirla neppure quando il più europeo degli avversari era il Beer Sheva, che per inciso ebbe la meglio all'andata e anche al ritorno, per fare uno dei tanti tristi esempi di un passato ancora troppo recente e vivido. Troppo vivido persino per Steven Zhang che di quell'Inter ne aveva appena scoperto "l'esistenza", a suo rischio e pericolo...

Rischi e pericoli partiti dal periodo del 'togli allenatore, metti allenatore', degli acquisti inenarrabili dell'uomo del mistero Kia Joorabchian (quali 'i signori 70 milioni' Gabigol+Joao Mario), del vorrei ma non compro o del terrei ma non riscatto dovuti alle limitazioni del FFP, a lungo attanagliante ed estenuante, fino alla Belle Époque contiana. Il più alto periodo dell'Inter sotto il segno di Zhang durante il quale tra allenatore top, pezzi da 90, sede nuova e progetto economico-finanziario anche quello sportivo sembrava finalmente decollare e conclusosi, non a caso, con un titolo finalmente riportato in bacheca. Ma ad ogni picco in alto ne succede uno in depressione ed ecco il Covid e tutte le conseguenze del caso che in casa Inter hanno avuto un impatto decisamente più forte rispetto agli altri club italiani per via di una proprietà cinese che, oltre alle milionarie perdite 'in casa', dovette fare i conti anche e soprattutto con i blocchi imposti dal governo. E addio sogni di gloria. Almeno così sembrava. Perché per ogni Conte sceso dal carro, un Marotta e un Ausilio che in quell'apparente ritorno al Medioevo ne fecero sfida professionale e quasi personale. E via di ricostruzione.

Lenta, dolorosa, fatta di decisioni impopolari che il più delle volte li hanno esposti alla gogna mediatica e per ogni (tanto odiato) "cercheremo di cogliere le opportunità che il mercato ci offre" pronunciato, un parametro zero veniva messo in un carrello che pian piano si riempiva per poi sfociare in "acquisto completato" con tempistiche e modalità giuste. Acquisti spesso non capiti, non ben accolti che, da Inzaghi a Dzeko passando per i vari Mkhitaryan, Darmian e addirittura Calhanoglu, oggi sventolano ben alta una bandiera che solo in due possono orgogliosi far garrire: la finale di Istanbul. Lì dove nessuno si aspettava di poter finire, lì dove nessuno pensava mai a guardare, anche e soprattutto due mesi addietro quando a mancare erano i risultati sul campo e gli animi si erano, comprensibilmente, surriscaldati dopo aver toccato quota 11 ko in campionato. Numeri che, analiticamente, facevano aberrare e pensare ad un'ennesima catastrofe dalla quale difficilmente poter ripartire senza un'altra lunga e dolorosissima discesa negli abissi.

Ma gli interisti lo sanno e persino i più 'novelli' dei nerazzurri come Simone Inzaghi lo hanno capito: "All the roads we have to walk are winding". Ed eccoci qui, ad un terzo posto in campionato a tre giornate dalla fine, in finale di Coppa Italia e soprattutto in finale di Champions League, lì dove l'ultimo ad arrivarci era quello Special, oggi a Roma, che conta solamente due campionati portoghesi, due Coppe e una Supercoppa di Portogallo, quattro Coppe di Lega inglese, Tre Premier, Due Community Shield, una Coppa d’Inghilterra, due Scudetti, una Coppa Italia, una Coppa di Spagna, una Liga, una Supercoppa di Spagna, due Europa League, due Champions League e una Conference. Insomma, per dirla in breve non uno stronzo qualunque. E allora viene da dire che se quel gradino così alto d'Europa non è riuscito a ri-calcarlo neppure il 'top' con i pezzi da 90 durante la famosa Belle Époque, sto Simone Inzaghi qui, probabilmente, tanto stronzo non sarà neppure.

Tantomeno scemi e 'scarsi' sono i parametri zero e le occasioni colte da Marotta e Ausilio negli ultimi quattro anni. E seppur tortuosa e complicata, la via di Istanbul non è mai stata così illuminata e non di certo soltanto perché per arrivarci si è passato sul 'cadavere' atteso in riva per ben vent'anni, no. Non solo per quello, ma anche solo per quello questa via verso Bisanzio è più illuminata e accecante che mai. "And all the roads we have to walk are winding. And all the lights that lead us there are blinding". Ti dice niente, caro Noel Gallagher? E allora sì, l'Inter di questi 'stronzi' qui sarà meno valuable del tuo Manchester City, meno brillante, meno forte e meno tutto. Ma questo viaggio partito al Meazza col Bayern sì, è già il mio, il loro, il nostro wonderwall (muro delle meraviglie). E chissà, per quanto impronosticabile, che la tua, la sua (di Pep), la vostra (di tutti i Citizens) ossessione non sia "the one that saves me" (us) in maniera storicamente definitiva. 

Sezione: Editoriale / Data: Dom 21 maggio 2023 alle 00:00
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
vedi letture
Print