"Mi chiedete che cosa vedesse papà dal campo. Papà per tutta la sua vita vide calcio. Cioè la sua passione fin dai primi calci in oratorio. Si ostinava a cercare di vedere la purezza del gioco già da ragazzino: così mi raccontava o mi hanno raccontato. E rimase sempre idealmente legato alla terra battuta degli oratori". Lo dice Gianfelice Facchetti, figlio di Giacinto, in una splendida intervista su Tuttosport. "Papà provava molto rispetto e riconoscenza per i tifosi. Ma durante la partita aveva una capacità speciale di isolarsi, di sganciarsi dagli spalti, di estraniarsi dal contorno - si legge -. Era una delle sue qualità. Essere molto lucido, calmo, pacato. Non farsi travolgere dalle emozioni, ma cercare di dominarle, dominando un pallone. In questo contesto totalizzante per papà, prima calciatore e poi dirigente, sempre in azione e spesso lontano da casa, mia mamma Giovanna ha vissuto agli antipodi, rispetto al ruolo tipico di moglie di calciatore che si è imposto oggi. Credo che mamma abbia visto giocare papà solo qualche volta a San Siro con la maglia della Nazionale. Stava molto defilata. E quando papà è morto, ho scoperto che mamma per anni e anni, per decenni, aveva raccolto giornali, articoli, foto e altro materiale su papà o di papà. Anche cimeli sportivi: le maglie storiche, le fasce da capitano... Tutto catalogato: data, partita, risultato... Un impegno quasi quotidiano, enorme e ammirevole. E aveva radunato il tutto in faldoni, ben suddivisi e ordinati per epoche. Lì c’era tutta la carriera di papà. Mamma ha fatto quel che faceva Penelope per Ulisse. Lui giocava, e lei portava avanti il racconto, faldone dopo faldone. Sì, è così: ho scoperto tutto ciò soltanto dopo la morte di mio padre. Che non solo in pubblico ma anche con noi figli era molto timido nel lasciarsi andare a raccontare la sua vita, a celebrare i trionfi, a raccontare aneddoti. Per mio padre la sua carriera, per quanto grande, era stata la cosa più naturale del mondo. Tutto era stato naturale, per lui, nella sua testa. Gli altri, da fuori, potevano stupirsi, ammirati. Ma lui si sentiva sempre quel bambino dell’oratorio, e non si vantava mai, non indossava maschere. Per cui io rivedo mio padre anche in quei faldoni, non solo nel cuore. E vedo anche la storia d’amore di mamma e papà, lì".
"L’Internazionale, l’Inter, per me è un bel racconto - spiega Gianfelice -. E’ un’idea. Il racconto di una differenza nello stare al mondo. E mi piace sempre vederla attraverso la narrazione, l’Inter. Perché l’Internazionale sono tante idee che prendono la forza. L’hanno incarnata giganti e meteore. L’Inter è una grandissima storia che racconta proprio le differenze. E la principale, che diede la scintilla iniziale, è stata quella di aprirsi fin da subito agli stranieri. Un tema che ritorna sistematicamente in 110 anni di storia. Ci sono stati periodi in cui hanno chiuso le frontiere, nel nostro calcio. C’è stato un periodo, la dittatura fascista, in cui l’Internazionale fu persino costretta a cambiar nome: Ambrosiana. Ma l’Inter resta libertà senza confini. Nella vita, significa anche accettazione del diverso. Il primo gol nella storia dell’Inter lo segnò uno straniero nel 1909. Un brasiliano. Achille Gama. Era il destino nerazzurro che nasceva. La mia visione dell’Inter, così, è un insieme di valori. Che inseguo anche nella vita di tutti i giorni. Usciamo dallo sport, ora: immaginate per esempio il mondo della cultura e delle arti senza la diversità. Secolo dopo secolo. Sarebbe una palude. E allora perché non accettarla, la diversità? Significa accettare la vita. E vita è anche visione e accettazione del diverso. Perché bisogna anche saper vedere con il cuore".
C'è poi il racconto di un filo invisibile che lega l'Inter al Torino. "Anche il Toro rappresenta un legame affettivo, per me - svela Gianfelice -. L'ultima partita del Grande Torino in Italia fu proprio contro l’Inter. E nel 1951, 2 anni dopo Superga, alla penultima giornata l’Inter giocò a Torino, contro i granata: che, se avessero perso, sarebbero retrocessi in B. Mentre se avesse perso l’Inter, lo scudetto sarebbe andato manco a dirlo al Milan, che non lo vinceva addirittura da 44 anni. E Benito Lorenzi, il grande attaccante dell’Inter che intanto era diventato come un papà per Sandro Mazzola, dopo la scomparsa del suo caro amico Valentino, non si sentì di condannare il Toro. Si racconta che non si impegnò alla morte, che commise errori anche incredibili davanti alla porta. Così l’Inter perse 2 a 1. E poi perse anche lo scudetto. Mentre il Torino si salvò in extremis, in quel modo. Perché vincere non è l’unica cosa che conta: nello sport, ma a maggior ragione nella vita. Altri valori sono ben più importanti. E non c’è bisogno di essere per forza dell’Inter o del Toro per capirlo, per avere e nutrire questa visione etica dell’esistenza".
VIDEO - ACCADDE OGGI - UNO DEI GOL PIU' CELEBRI DI FACCHETTI: INTER-MILAN 2-1 (1973)
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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