Enorme intervista di Daniele Adani al Corriere dello Sport. Qui ne riportiamo solo alcuni stralci.

Più viscerale o più mentale il tuo sguardo sul calcio? Io dico, incredibilmente, entrambe le cose. 
"Non riesco ad essere solo carnale nell’approccio al calcio. Che giochi la Juventus o la Lavagnese di mio fratello Simone, mi scatta la passione di approfondire. Il rischio, ammetto, è di diventare logorroico".

Eri già così da giocatore? 
"Sedici anni o ventidue, non importa, non permettevo a nessuno di farmi fare una cosa in cui non credevo. Fosse un’interpretazione del ruolo o una situazione tattica. Fosse l’allenatore della primavera del Modena, Lucescu, Trapattoni, Mancini o Zaccheroni. Sono cresciuto a furia di scontrarmi con i miei allenatori. Ero ossessionato dal voler capire". 

Il maestro dalle cui labbra pendere. 
"Mircea Lucescu. Prima di ogni altro, mi ha insegnato che il difensore deve essere protagonista. Agire e non solo reagire. Il difensore che agisce costringe l’attaccante a fare una cosa in più. Lo fai pensare, lo fai correre. Gli fai fare più fatica. Gli togli certezze". 

Esempio? 
"Il famoso elastico di Franco Baresi nasce molto prima di Sacchi. Le cose che insegna Guardiola oggi, le insegnava Lucescu vent’anni fa. Difendersi nella metà campo dell’avversario, era un concetto chiaro per lui".

Oggi, un concetto abbastanza diffuso. 
"Per questo, l’attaccante atipico di oggi è quello che fa gol, l’Icardi della situazione". 

Icardi attaccante atipico? Il senso comune dice il contrario. 
"Quello che era tipico una volta oggi è atipico. Icardi è l’attaccante anomalo, per questo fa montagne di gol e tutti lo elogiano anche se poi gioca da solo e non becca palla. Oggi l’attaccante tipico è quello che gioca con la squadra".  

L’anacronismo di Icardi sarebbe la sua virtù? 
"Sai perché viene valutato sempre bene? Non gli si chiede altro che fare gol. Perché solo quello sa fare. Le cose in più le chiedi a Higuain, Lewandowski, Luis Suarez. Se fanno un gol e non toccano palla gli dai la sufficienza ma non li esalti. Loro ti offrono troppo calcio. Sono loro per me quelli giusti". 

La Nazionale, Inter, Fiorentina, Brescia, tante altre. Il calciatore più forte con cui hai giocato? 
"Dalmat nell’Inter era uno dei più forti, ma ha fatto poco o nulla in relazione alle sue capacità. Morfeo era un talento clamoroso. L’unico che lanciava calcolando l’intensità e la direzione del vento". 

Il più grande italiano in assoluto? 
"Meazza per quello che mi raccontava mio padre. I filmati mi dicono di Rivera. La capacità di strabiliare, Baggio. Ma chi ha unito i due mondi nel mio ruolo è Paolo Maldini". 

Calciatori pensanti. 
"Daniele De Rossi su tutti. Per distacco. C’è lui e poi ci sono i calciatori. Non riesce ad essere banale nemmeno se s’impegna. Se ne frega delle conseguenze. La sua capacità d’amare non conosce compromessi. Non è ruffiano e non fa niente per cercarsi una vita facile. E’ il giusto che lo attrae. Un vero uomo d’onore". 

L’allenatore esemplare secondo Adani. 
"Un capofamiglia che sa farsi amare. Ascolta i ragazzi che hanno giocato con Mourinho. Ne parlano tutti benissimo. E sai perché? Mourinho è uno di quegli allenatori che ti porta a guardarti dentro, uno che riconosce e rispetta la tua storia". 

Nell’Inter stavi in camera con Bobo Vieri. 
"Il più grande professionista che ho mai conosciuto. Una cosa che nessuno immagina. E’ molto facile essere Zanetti, difficile è essere Vieri. Uno che a Pisa, Ravenna e Venezia non sapeva stoppare la palla ed è diventato un bomber straordinario". 

Spalletti all’Inter? 
"Mi piace. Uno che studia e sa di calcio più di quanto faccia capire. Bravo anche a comunicare. Quando vince se li mangia tutti. Il problema è quando perde. Escono fuori le sue insicurezze". 

Ti basta come gratificazione quando ti dicono che sei preparato? 
"Per niente. Essere preparati è il minimo. Se non sei preparato non devi andare in onda. Non devi scrivere. Non cominci neanche a parlare. Poi devi essere empatico. Trasmettere quello che provi. Mostrarti nudo, come ho fatto spesso io in diretta". 

Racconta. 
"Il gol di Vecino contro il Tottenham a San Siro. Il 36º di Higuain in mezza rovesciata sotto una pioggia biblica a Napoli, uno più di Nordhal. Ho cominciato a urlare: “Non è possibile!”. Non mi fermavo più. Maracanà, mondiale 2014. Le migliaia di cileni che cantano a cappella l’inno nazionale contro la Spagna. Lì non c’entrano più le maglie o le bandiere, lì è la magia del calcio". 

Smanettando a destra e a manca, vedo tuoi celebri colleghi che, si capisce, non hanno nemmeno letto i giornali della mattina. 
"Dovrebbe essere fondamentale cosa dici e non chi sei, il contenuto e non il nome. Passione, descrizione, analisi. Dobbiamo meritarcelo il confronto con i Guardiola e i Sarri. Nel sistema non c’è lungimiranza. Non si vuole lasciare un segno, costruire un coinvolgimento. Non c’è quella smania utile di volersi rinnovare".

Sembri uno inesorabile con te stesso. I più si fanno bastare quello che basta. 
"Dei soldi e dell’esito me ne frego. Tutto quello che sono lo devo a me e ai miei genitori. Mamma Vanna operaia che non c’è più e papà Sante che c’è ancora. Un artigiano del legno, un vero fenomeno, un lottatore, un comunista d’altri tempi, amante di Berlinguer". 

Smetti a 34 anni di fare il calciatore. 
"Smetto per nausea. Non sopporto più la nausea di sentirmi fuori posto in campo. Cominciavo a pensare in maniera diversa, mi dovevo reinventare". 

Che calciatore eri? 
"Un fenomeno come commentatore e scarso come giocatore, si sente dire in giro. In realtà, sono stato un difensore centrale notevolissimo che meritava di fare un Mondiale". 

Quella volta che hai detto no al Mancio come vice all’Inter. 
"Scelsi di continuare a fare ciò che amavo, comunicare, raccontare il mio calcio".

Tu e il Mancio, a occhio, non sembrate così affini. 
"Del Mancio è facile farsi un’idea sbagliata. Lui non è bravo a mostrarsi in certi picchi che invece a me conquistano. C’è questo suo piccolo snobismo del non darsi, ma lui è molto profondo. Un uomo di fede, con una grande interiorità. E’ stato lui a portarmi nelle comunità dove la gente soffre. Se lo conosci bene, il Mancio, non ci fai più nemmeno caso ai suoi vezzi estetici".  

Il collega più stimolante con cui parlare di calcio? 
"Lo zio Bergomi. Sento profondamente il legame silenzioso e costante che va oltre la nostra differenza. Lui mi piace molto per il suo equilibrio, per la sua capacità analitica e lo stile colloquiale". 

Sezione: Rassegna / Data: Gio 15 novembre 2018 alle 10:14 / Fonte: Corriere dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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