L’Equipe incontra Antonio Conte per una lunga intervista pubblicata sul proprio magazine settimanale due giorni dopo la sconfitta in rimonta rimediata dall’Inter contro il Borussia Dortmund in Champions. Questo perché intervistarlo dopo una sconfitta, si legge nell’introduzione, è la maniera più istruttiva per conoscere il vero Conte. E la prima domanda, infatti, verte su questo tema per lui sempre delicato. Ecco alcuni passaggi tra i più importanti delle parole del tecnico nerazzurro.
Cosa rappresenta per lei la sconfitta?
“Dolore. Per un giorno o un giorno e mezzo, non mi sento affatto bene, per me è come un lutto. La sconfitta deve lasciare delle tracce, in me, nei miei giocatori, nel club per il quale lavoro. Impiego energie e forze per trovare rimedi e migliorare la situazione, anche perché la vittoria può portate ad un certo rilassamento”.
In età più giovane, allenava la squadra di suo fratello più piccolo. Quale era allora il suo piacere?
“Amavo insegnare, se non avessi giocato o allenato sarei diventato insegnante di educazione fisica. Avevo anche ottenuto il diploma all’università di Foggia, era il mio piano B. Ma l’ho ottenuto anche per rendere felici i miei genitori che mi hanno sempre detto di mettere gli studi prima del calcio”.
Era studioso?
“Ho letto molti libri sulla psicologia, la gestione di un gruppo e la motivazione. Le conoscenze tecnico-tattiche non bastano, bisogna essere allenatore a 360 gradi. Un allenatore ha a che fare con 50 persone, ognuna con un cervello differente, quindi ognuna va tratta nella maniera migliore. Sono io il capo, devo prendermi cura di loro. Diverse case editrici mi hanno chiesto di scrivere libri di management, mi piacerebbe ma non ho tempo, ho troppo lavoro da fare. Lo farò prossimamente, con calma”.
Giovanni Trapattoni, Marcello Lippi e Carlo Ancelotti sono i tecnici che l’hanno allenata di più. Non potrebbe avere avuto migliore formazione.
“Si può anche aggiungere Arrigo Sacchi con la Nazionale, è stato molto importante nel mio percorso. Come Dino Zoff, Eugenio Fascetti e Carlo Mazzone quando debuttai col Lecce. Mi hanno insegnato molto sulla disciplina, sull’uso del bastone e della carota. Ho avuto fortuna, questo è sicuro; mi hanno arricchito molto. Il Trap per me è come un secondo padre, era come se avesse la mia tutela: sono arrivato alla Juve a 21 anni, solo; senza di lui, non sarei rimasto tanto tempo in bianconero. A ogni fine allenamento, facevo sedute tecniche col suo vice Sergio Brio. Il mio primo match con la Juventus fu un’amichevole persa col Monaco a causa di un errore mio: avevo dosato male il retropassaggio a Stefano Tacconi e Youssouf Fofana lo aveva intercettato per poi segnare. La Gazzetta usò il titolo: ‘L’errore di Conte nel Principato’, che avrebbe ucciso più di uno. L’indomani ero triste, ma Trapattoni è venuto a tirarmi su di morale”.
Sul periodo da allenatore alla Juventus.
“Così come da giocatore, sono andato al di là delle mie aspettative. Per la forza del lavoro, per i sacrifici, sono migliorato di anno in anno. Di colpo ho vinto tutto in 13 anni alla Juventus e sono stato vice-campione d’Europa e del Mondo con l’Italia. Da allenatore, la cosa è differente; ho avuto la sensazione di poter realizzare qualcosa di importante, ero molto più fiducioso. Conoscevo le mie qualità, le mie capacità di fare applicare le mie idee. Ci sono professori universitari che sono bravi nella teoria ma non arrivano a trasmettere la loro passione. Io faccio traspirare la passione per questo sport”.
Da giocatore era già un allenatore in campo. È fondamentale avere un profilo del genere nella sua rosa?
“La comunicazione sul campo è la prima cosa: perché possa funzionare, bisogna avere uno o due giocatori che sappiano sentire i momenti buoni per pressare o prendere tempo. Questo è quello che sapevo fare, soprattutto dopo i 30 anni. Quando le gambe vanno meno bene, si utilizza il cervello. Ciò che non si fa più col corpo lo si fa con la testa. Mi piacerebbe vedere i giocatori con meno di 30 anni che riescano ad assimilare questo concetto ma diventa sempre più difficile”.
Perché?
“Le generazioni di allora crescevano fuori, la strada faceva maturare rapidamente i giovani che erano abituati a risolvere da loro i problemi. Oggi, hanno gli smartphone, le PlayStation, i computer. E sono i genitori che risolvono per loro i problemi. La strada insegna, noi ci arrampicavamo sugli alberi, ci avrebbero definiti delle scimmie; imparavamo a fare salti di due o tre metri senza farci male. Sfido chiunque oggi a essere capace di arrampicarsi su di un albero. Bisognava combattere, non avevi mamma o papà o qualcuno che potesse salvarti. Peggio, tornavamo a casa e i nostri padri ci davano il resto. Manca un po’ questo oggi, i giocatori sono troppo abituati ad aspettare la soluzione”.
Sembra sempre contrariato, a volte ci si chiede non lo sia un po’ troppo.
“La competizione è una battaglia, quando si combatte non c’è ragione per ridere o essere contenti, Mors tua, vita mea. Sono concentrato sul fatto che ne deve rimanere solo uno, e faccio di tutto perché sia la mia squadra. Io gioco per vincere, questo può infastidire, mette pressione a tante persone non abituate che avrebbero problemi a seguirmi. È il mio modo di essere e mi porterà a finire anzitempo la mia carriera, perché vivo questo mestiere in maniera troppo intensa. Potrò sorridere quando avrò meno responsabilità e meno gente da portare sulle mie spalle”.
Dovunque sia andato ha ottenuto risultati, e le sue squadre, come l’Inter in questi mesi, le assomigliano sempre. Qual è il suo metodo?
“Da quando inizio a lavorare, esigo serietà, rispetto delle regole, limiti per dare un orientamento. Dopo, siamo tutti buoni quando si tratta di parlare di regole, ma in quanti hanno la forza e la voglia di farle rispettare quando arrivano i problemi? In tanti girano lo sguardo per evitare pensieri. Io non sono così. Si può essere chi si vuole, avere una grande carriera da calciatore; il calciatore ti valuta, ti pesa in sole due settimane e dice che questo è un grande allenatore, quest’altro no, questo un mediocre”.
Lo schema del 3-5-2 è un vantaggio per modellare rapidamente le sue squadre.
“Dipende soprattutto dai giocatori a mia disposizione. In Serie B giocavo col 4-2-4. Ho provato a usare questo sistema alla Juve ma sono passato rapidamente al 3-5-2 o al 3-3-4, secondo l’interpretazione. Quell’approccio era unico. Io e il mio staff siamo sempre stati soggetto di studi. Prima che arrivassi al Chelsea, la difesa a tre in Premier League era un tabù poi le squadre hanno iniziato a usarla. Anche io avevo iniziato con la difesa a 4 ma dopo aver perso in casa 3-0 con l’Arsenal ho deciso di cambiare perché avevo dei giocatori che andavano protetti”.
Quindi non è così radicale.
“Assolutamente no, al Chelsea impiegavo un 3-4-2-1 con Eden Hazard, Willian o Pedro dietro la punta e due centrocampisti assiali. All’Inter ne ho tre: mi adatto alle caratteristiche dei miei giocatori per valorizzare le loro qualità e limitare i loro difetti”.
Consigliare le posizioni da usare durante i rapporti sessuali è una cosa rara. Non ha studiato il Kamasutra?
“No, ma ero un calciatore anche io. In tempo di competizione, il rapporto non può durare troppo, bisogna fare meno sforzi possibili, mettendosi quindi sotto la propria partner. E poi bisogna farlo preferibilmente con la propria compagna, perché così non si ha l’obbligo di fornire una prestazione eccezionale”.
In che cosa le è stato utile essere stato calciatore?
“Mi permette di entrare nella testa di un mio calciatore, in maniera costruttiva, e sapere ciò che pensa. Capire quando deve fermarsi, quando ha bisogno di una frase positiva o quando deve essere pungolato o deve tornare sulla terra. A volte, un giocatore che segna una doppietta si sente le ali e potrebbe rilassarsi, è naturale, succedeva anche a me. Grazie alla mia esperienza devo anticipare e riformattare il giocatore”.
Lei si prende cura del suo aspetto. È un fattore importante del suo mestiere?
“Non si può professare un’alimentazione sana, la cura del fisico e poi presentarsi con 120 chili di peso. Bisogna essere credibili in ogni secondo: ci vuole molto tempo per ottenere credibilità e pochissimo tempo per perderla”.
Lei ha il dono di recuperare squadre in difficoltà e rilanciare. Si direbbe che è questo che determina le vostre scelte di carriera, allenare una squadra vincente sembra non interessarle…
“No, mi interessa, mi piacerebbe sedermi su una Formula Uno e partire in pole position. Alla terza stagione alla Juventus ho stabilito il record dei 102 punti. Io spingo sempre la macchina al massimo, la mia storia racconta sin dall’inizio che non parto favorito: a Bari ho ereditato una squadra dalla zona salvezza e l’ho portata in A, dove ho riportato il Siena appena retrocesso. E anche Juve, Chelsea e Nazionale venivano da momenti delicati quando sono arrivato. Ma posso assicurare di avere rifiutato dei club perché pensavo non fosse il momento giusto”. (Dopo l’intervista, Conte rivelerà di avere detto no al Paris Saint-Germain, ndr).
Lei, simbolo della Juve, ha scelto di allenare l’Inter, la rivale storica. Come si gestisce questa cosa?
(Conte risponde infastidito, ndt) “Penso di essere una persona onesta e leale sotto ogni punto di vista. Credo nel lavoro, nello sforzo, nel sacrificio. Non mi snaturo, non sono un leccaculo, non ammalio la gente suonando il violino. Cerco di farmi apprezzare per tutto questo, ma se si vuole attizzare il fuoco piuttosto che fare di me un esempio positivo… Sono arrivato dove sono adesso grazie al mio di culo, e non devo ringraziare nessuno a parte i miei genitori. Sono uno spirito libero”.
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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