Gradito ospite di Radio Nerazzurra oggi è stato Cristian Chivu, uno degli eroi del Triplete che oggi è allenatore degli Under 17 dell'Inter. Un'occasione per ripercorrere la sua carriera da professionista e per parlare anche di attualità.
In cosa ti piace di più dell'Inter di quest'anno?
"A me piace l'inizio di stagione positivo, sono 4 su 4 che danno fiducia e consapevolezza del lavoro svolto finora. Ci sono i presupposti per andare avanti bene e fare una grande stagione".
Colpisce il lavoro di Conte sulla cultura della squadra. Ci sono differenze tra lui e Mourinho?
"La cultura del lavoro è fondamentale, poi conta la convinzione. Quando i ragazzi credono nella proposta dell'allenatore si fa bene, probabilmente con Mourinho è stato lo stesso, ma là c'era la convinzione di essere forti, venivamo da stagioni vincenti. Quando ci si trova sulla strada delle vittorie c'è più consapevolezza. Oggi è più difficile perché da qualche anno l'Inter non conquista titoli e questo si paga. Per questo la cultura del lavoro è fondamentale".
Come hai visto la difesa a tre Godin-De Vrij-Skriniar? Lo slovacco sembra in difficoltà nell'impostazione.
"Io non parlerei solo di loro tre, ci sono anche D'Ambrosio e Ranocchia. Ogni difensore ha le sue caratteristiche e qualità e messe a disposizione della squadra vengono fuori i risultati. Poi non è giusto parlare di un reparto,si difende in undici a partire dagli attaccanti. Godin, De Vrij e Skriniar sono una garanzia, non parlerei delle difficoltà dello slovacco a sinistra perché è forte nell'uno contro uno e ha compiti ben precisi nel possesso. Poi tanto la scarichi a Brozovic... In quella posizione non ti mancano le linee di passaggio, poi la fase difensiva è fatta sempre bene".
Brozovic due anni fa usciva dal campo fischiato. Poi è bastato spostarlo di posizione e si è ripreso.
"Lui è arrivato molto giovane, trovarsi in un ambiente in cui le cose non andavano come previsto non è facile. Anche Kovacic ha trovato le stesse difficoltà, ci si aspettava tanto da lui. La fortuna di Brozovic è stata Spalletti, che lo ha messo nelle condizioni di esprimersi al meglio, parlando tanto e dandogli fiducia. Con la crescita della sua autostima tutto è diventato più semplice e oggi ci godiamo un grande giocatore".
Sei in forma smagliante.
"Mi alleno, mangio poco ma qualche etto l'ho messo su anchio (ride, ndr)".
Qual era tra i tuoi compagni il giocatore più estroverso fuori dal campo?
"Preferirei parlare di una squadra con carattere e personalità piuttosto del singolo. C'era chi fuori dal campo era normale e dentro diventava un animale, e viceversa. Però quando le cose si facevano serie ognuno aveva la faccia da professionista, si lavorava molto consapevoli di essere forti".
Qual è stata la partita in nerazzurro a cui sei più legato?
"Ce ne sono tante, ma se devo dirne una la semifinale di ritorno a Barcellona nel 2010. Ci sono state emozioni ma anche paura, giocare in 10 al Camp Nou contro la squadra più forte di tutti i tempi non è stato facile".
Ma quando ha segnato Bojan, cos'hai pensato?
"Io avevo già sentito il fischio. Ero vicino all'arbitro, già per terra con finti crampi (ride, ndr). Ero sereno. Chi non l'ha sentito penso non l'abbia presa bene, compresi i nostri tifosi che erano posizionati in alto".
C'era uno striscione con scritto 'Remuntada'. Hanno cercato di intimidirvi a Barcellona?
"No, sono stati corretti. Eravamo comunque consapevoli del clima che avremmo trovato, eravamo pronti. Facile non lo era, c'era confusione sulla formazione dei catalani. Ma i criteri rimanevano gli stessi, noi dovevamo solo fare attenzione a tutto. Poi rimanere in dieci dopo mezz'ora ha complicato tutto. Però eravamo pronti a disputare una partita che ci avrebbe portati in finale".
Parliamo degli Europei del 2000.
"Ero già nell'Ajax ma poco conosciuto. In quel torneo in Belgio e Olanda avevo 19 anni e giocare titolare in Nazionale per me fu il via alla mia carriera".
Com'è avvenuto il passaggio dall'Universitatea all'Ajax?
"Ho iniziato nella massima serie rumena a 16 anni e mezzo, poi sono andato all'Universitatea e un anno dopo ero all'Ajax. Lì mi hanno detto che i loro scout mi hanno visto dal vivo in 32 partite. Nasce tutto così".
L'impatto con il mondo Ajax com'è stato?
"Più che il mondo Ajax è stata dura cambiare paese, parlavo l'inglese ma era un altro mondo. A 18 anni fui in grado di farlo, conoscevo i miei obiettivi anche se non era facile. Penso che se un giovane voglia imparare a giocare a calcio la realtà Ajax sia la migliore".
Hai sempre giocato da difensore?
"Ho iniziato da attaccante, poi pur segnando tanto sono lentamente andato più indietro. In serie B rumena ho giocato mediano, poi quando si è infortunato il terzino sinistro titolare mi hanno spostato lì. A quell'età per il piacere di stare in campo non si dice mai di no. Mi adattavo in fretta a tutto, molte cose le ho fatte bene ma altre male. Però imparavo qualcosa in più".
Koeman poi ti ha messo in posizione di difensore centrale.
"Prima l'avevo già fatto nella difesa a tre e a quattro. Koeman mi ha dato un po' di più di fiducia dandomi la fascia di capitano dell'Ajax a 20 anni, una responsabilità forte che mi ha fatto crescere molto. Una responsabilità così da giovane accelera il processo di maturazione".
Poi è arrivata la Roma che per te ha speso 18 milioni di euro. Hai avuto le stesse difficoltà riscontrate in Olanda?
"Un anno prima siamo arrivati nei quarti di Champions perdendo all'ultimo con il Milan e c'era un accordo con l'Inter, era l'estate 2002. Ma le cose non sono andate avanti e sono rimasto nell'Ajax, passando un anno dopo nella Roma dove Capello voleva un giocatore con le mie caratteristiche. Ho colto l'occasione al volo, volevo cambiare aria e giocare in Italia. Per un difensore la Serie A era il miglior campionato per crescere, lì c'erano i migliori al mondo nel ruolo e avevo tanto da imparare. Per me era un Paese che poteva farmi crescere a livello calcistico e come persona. Alla Roma ho giocato con Panucci e Samuel, abbiamo disputato una grande stagione ma abbiamo incontrato un Milan che sbagliò meno di noi. Poi ho giocato al fianco di Mexes".
All'Inter chi ti ha voluto fortemente è stato Moratti, che andò a Roma a trattare personalmente.
"La Roma non voleva mandare all'Inter, avevo un solo anno di contratto. Dopo la finale di Coppa Italia vinta proprio contro l'Inter, ho parlato con la società chiedendo di andare proprio a Milano in caso di cessione. Perché? Sapevo che c'era interesse, Mancini mi voleva e io fui molto chiaro con la Roma: trovate un accordo con l'Inter. Dopo qualche settimana mi hanno telefonato mentre ero in vacanza dicendomi di andare a Madrid perché c'era un accordo con il Real. Però le mie intenzioni erano chiare, non volevo lasciare l'Italia senza vincere lo scudetto. Non mi bastava la Coppa Italia, volevo lo scudetto e credevo che solo l'Inter potesse regalarmi questo sogno. Ci furono discussioni, la Roma non voleva maandarmi all'Inter ma il presidente Moratti è stato convincente e alla fine ce l'ho fatta".
Quanto ha pesato Mancini nella tua scelta di venire a Milano?
"Sono arrivato con lui ad allenare, non so quanto pesa la presenza di un tecnico. Io volevo venire all'Inter per vincere lo scudetto e alla fine ho fatto la scelta giusta. Ho avuto problemi, mi sono lussato la spalla due mesi dopo il mio arrivo e non mi hanno fatto operare subito per rinviare tutto in estate. Ho fatto anche un Europeo nel 2008 con la spalla che mi ballava, ero ridotto male ma il mio desiderio di dare il mio contributo pur non essendo al 100% ha prevalso. L'aspetto mentale supera ogni problema fisico".
Ci sono stadi che ti hanno intimidito?
"No, a me faceva sempre piacere vedere uno stadio pieno, anche ostile. Tante volte durante la partita non senti quello che accade sugli spalti, io sentivo solo quando volevo, staccandomi dalla partita".
Contro il Chievo hai avuto quell'incidente drammatico che ti ha costretto a indossare un caschetto. Cosa ricordi di quel giorno?
"Tutto. Per fortuna non ho perso i sensi, ero preoccupato di questa mia spalla perché avevo capito di aver fatto un volo in cui non ho controllato la caduta. Nonostante l'intervento, dovevo fare attenzione in molti gesti. Il braccio praticamente non lo usavo più come prima. Poi quel giorno la mia preoccupazione fu vedere se avevo sangue in testa, ho toccato e non trovavo più osso. Avevo paura di schiacciare. Inoltre il braccio sinistro era paralizzato, njon avevo sensi. Capirono in fretta la natura dell'incidente e il rischio che si correva e mi portarono subito all'ospedale. Volevo chiamare subito mia moglie per tranquillizzarla e in ambulanza lo feci, dicendole che in serata sarei stato a casa. Poi la società la portò all'ospedale con un autista perché era chiaro che sarei rimasto. C'era paura di non farcela, di non giocare più, ma la principale era non essere più lo stesso di un paio di ore prima. Avevo paura di non poter giocare più con mia figlia Natalia, che aveva 11 mesi. Non aver la certezza di svegliarmi normale dopo l'intervento mi spaventava. Poi è andato tutto bene, come in un film 5 mesi dopo abbiamo vinto il Triplete. Non è stato facile tornare in campo, devo ringraziare la società, il presidente e i compagni ma soprattutto colui che ha creduto in me e mi ha dato tanto morale, José Mourinho. Nelle prime due settimane mi chiamava ogni sera dicendomi di stare tranquillo, quando capì che le cose potevano andare bene iniziò a passare dal 'come stai?' al 'quando torni?'. Le sue parole mi davano la voglia di tornare prima, saltai delle tappe, il primo mese dovevo stare fermo, poi potevo iniziare a correre e mi capitavaa di cadere per terra senza punti di riferimento. Ma con tanta volontà mi sono rimesso a posto fisicamente. In un controllo successivo mi hanno dato l'ok per allenarmi facendo attenzione ai colpi di testa. Un conto però è quando ti alleni, un altro quando in partita ti arriva un cross forte. Nella riunione tecnica pre-partita, mi sembra contro il Livorno, Mourinho mi ha messo addirittura titolare. Tremavo e sudavo, ma per lui andava bene così finché ce l'avessi fatta. Ero felice. Poi, nella gara a Roma, che tra l'altro abbiamo perso, su un cross di Vucinic mi si è paralizzata tutta la parte sinistra. Ero spaventato, mentre si giocava io camminavo verso la partita col dottore che mi è venuto incontro. Sono andato a bordocampo per parlare col neurochirurgo che mi ha detto che era normale e che sarebbe passato tutto. Nei due mesi successivi sui colpi di testa ho sentito molte scosse, ma sapevo che era normale e io continuavo a giocare".
Dopo Inter-Bayern Mourinho va al Real e voi tornate a Milano per festeggiare.
"Due settimane prima della finale, quando avevo già giocato spesso, mi disse: 'A Siena non giochi dall'inizio, giochi titolare la finale di Champions. Quindi preparati mentalmente, avrai Robben, prenderai un giallo nel primo tempo. Poi ti sposterò in mediana e metterò Zanetti su Robben. E tra il 60' e il 70' avrai i crampi'. Io la partita l'avevo già vissuta due settimane prima. Durante i festeggiamenti eravamo tutti strafelici, non solo i tifosi ma anche i giocatori pagherebbero per vincere la Champions. Ancora di più quando lo fai con una squadra che non ci riesce da oltre 40 anni. La felicità in questo caso è doppia. Penso che tutti coloro fossero coinvolti nel progetto nerazzurro meritavano di vincere, era un gruppo forte, particolare dal punto di vista caratteriale, ma bei pezzi di uomini".
Autore: Redazione FcInterNews.it / Twitter: @Fcinternewsit
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