«Avevo vinto a sorpresa il titolo provinciale con una squadra sgangherata che giocava su un campetto in terra. Poi un altro scudetto con una società un po’ più importante, e a 26 anni è arrivata la Roma, dove ero il più giovane degli allenatori, e Bruno Conti mi dà la penultima squadra. Esordienti, classe ’94. Dopo 25 giorni – non era neanche cominciato il campionato – mi chiama nel suo ufficio e dice: “Guarda Andrea, ci ho riflettuto bene, tu per allenare questa squadra non vai bene”. E io ho pensato: “Manco un mese ho lavorato, manco uno stipendio prendo…”. Ma lui mi fa: ho deciso di darti i giovanissimi, classe ’92, che poi sono quelli che ora stanno tutti in Serie A. Insomma, mi fa saltare due squadre». Andrea Stramaccioni parla a Sette, l'inserto del Corriere della Sera. Edoardo Vigna, il collega che lo ha intervistato, lo definisce l'homo novus del nostro calcio, “come dicevano i romani di chi raggiungeva il successo partendo da zero, senza la spinta di potentati o origini patrizie”.

«“Ce l’hai fatta dal nulla” è il complimento più bello che possono farmi. Nel mio piccolo, il messaggio della vicenda è: anche in Italia, un allenatore che non era un giocatore famoso, o che non è un figlio d’arte, può arrivare in un grande club. L’esperienza conta, se dicessi il contrario darei una risposta idiota. Io ho giocato contro allenatori come Zeman e Ventura, che allenavano prime squadre quando non ero ancora nato! La differenza di “casistica”, fra noi, non la colmi. Però, io ho fatto la sottogavetta: quella sui campi di terra, anche se ti dà solo un vantaggio umano... Ma ho anche un altro valore aggiunto: mentre facevo l’allenatore di giovanili, ho avuto la fortuna di lavorare come osservatore per club professionistici. Il Crotone, il Parma. Sa cosa significa fare relazioni individuali sui calciatori? Parlarne è una cosa, scriverne è un’altra. Scripta manent. Sei costretto a lasciare nero su bianco aggettivi e verbi che connoteranno per sempre la relazione. Serviva una rielaborazione feroce. Sembrerà banale, ma questo taglio interpretativo del calciatore e della gara mi ha dato tanto come allenatore, perché molti colleghi – del settore giovanile – sono concentrati solo sulla propria squadra. Io sono uno che impara. Alla velocità della luce».

Poi Stramaccioni racconta il passaggio drastico da giovane promessa a potenziale allenatore, complice il tremendo infortunio al ginocchio. «Sono diventato ometto un po’ prima degli altri. Via di casa a 14 anni, a vivere in un pensionato. Ricordo l’odore dell’erba bagnata. Casteldebole, il centro sportivo del Bologna, aveva prati veri: cosa che nella Capitale, la mia città, neanche Roma e Lazio avevano sempre. Mi sentivo d’essere diventato un giocatore importante». Selezioni nazionali, con Totti e Nesta. «Le basi per vivere da solo a quell’età me le ha date la mia famiglia. Un’educazione che nessuno potrà mai cancellarmi. I miei sono due persone semplici; io e mio fratello, che fa l’ingegnere ed è più piccolo ma più grosso di me, siamo cresciuti su principi chiari. Precisi. Avevamo sempre tutto ciò di cui c’era bisogno, ma senza “quell’extra”. Due stipendi normali, rispetto per tutto: il prossimo e il lavoro. Qualsiasi cosa fai, non importa quale sia l’ambito – calcio, musica, architettura – devi farlo col massimo impegno». Poi l'infortunio. «Quello è stato il passaggio, finora, più triste della mia giovane vita. È stato come se, in un colpo solo, si fosse infranto tutto. Sogni di arrivare in Serie A. Ma soprattutto, desideri giocare. Ancora adesso, dopo un po’ che tiro calci al pallone, mi si gonfia il ginocchio. Ero ingrassato tanto, 15 chili. Ero giù. Mi ha aiutato la mia famiglia. E lo studio. A dire il vero mi sarei anche laureato in Giurisprudenza. È importante, sa.... Il liceo mi ha dato il metodo. Me lo sono ritrovato nello scandire una seduta di allenamento. Se non hai metodo, nello studio, non vai avanti. Se perdi la propedeuticità delle lezioni, se non segui la spiegazione delle declinazioni, fai una fatica terribile. E poi ti insegna a esporre dei concetti, ti abitua a essere esaminato, alla dissertazione. Comunque, dopo gli infortuni, essere in corsa, con una facoltà come giurisprudenza, mi ha dato un senso. Quando ti dici: ho diritto Costituzionale ad aprile, poi ho Commerciale, Penale, ho le lezioni da seguire... Lo studio è importante: lo dico sempre ai miei giocatori. Sia per la vita, sia perché il calcio è così, può andarti male. La scuola dell’obbligo – che io intendo come i 5 anni delle superiori – la devi portare a termine. Dopo, puoi non essere predisposto per l’università, e per carità, ognuno ha la sua indole, ma la scuola va finita».

Lui, giovane tecnico, cosa pensa dei giovani calciatori di oggi? «Non mi permetto di dire “sono viziati”, perché è un passaggio forte. Ma, in questo momento storico, hanno di sicuro più agevolazioni. Spesso, la voglia di arrivare, calcisticamente, è data da quanta fame hai. La motivazione integra il talento. Se hai un talento smisurato probabilmente arrivi comunque, ma la voglia di fare sacrifici completa le doti che ti ha dato il Padreterno, per chi ci crede, o i tuoi genitori. Di questa fame, ne vedo mediamente meno in Italia. I ragazzi non si rendono conto di avere delle fortune rispetto alla generazione precedente, anche solo rispetto alla mia. Oggi, un ragazzo di 16 anni senza connessione internet avrebbe qualche problema. E magari questo porta ognuno a una “globalizzazione” differente… Però io ho un ricordo bellissimo: al pensionato del Bologna, finito l’allenamento e la cena, scendevamo sul campo a piedi nudi e calciavamo a chi prendeva la traversa dal limite dell’area, facevamo le scommesse, ed esultavamo da soli. Altro che videogiochi!». E un esempio positivo di questo tempo non può non essere Javier Zanetti, il capitano dell'Inter. «Quando giocavo, e io mi ritenevo uno professionale, una volta davo 10 e una volta davo 5. Lui è al di là dell’umano: il primo ad arrivare, alla fine di ogni allenamento si ferma a fare ginnastiche preventive e posturali. Questo, secondo me, è il segreto della sua capacità di giocare, dopo 20 anni di Inter, ogni partita come se fosse la prima o l’ultima. Se un giovane s’impegna negli allenamenti, dà la giusta importanza allo studio, e poi preferisce stare su internet due ore la sera, è la sua vita». Difficile da capire per chi non ha nemmeno un profilo Facebook o Twitter. «Mai avuto neppure la tentazione. Un giorno – è stato troppo bello! – mia moglie Dalila mi dice: ma che, mi hai chiesto l’amicizia? Era un Andrea Stramaccioni fake (falso, ndr) che la voleva tra i contatti! Lei dice che sono vecchio dentro...».

Poi le preferenze: giocatore-mito è Maradona, ama la musica dei Queen, cita la poltrona di Fantozzi e, posando per il fotografo, declama “modello Giuditta!” alla maniera del Piccolo diavolo di Benigni. «Ho sempre detto ai ragazzi che ho allenato: non sono né tuo papà, né tuo fratello. Ma quando mi rincontrerai, tra qualche anno, potrai sempre dire che magari non capivo un c... di calcio, non potrai mai dire che non ti ho detto in faccia ciò che penso. E questo, secondo me, è un mio piccolo segreto». Scontri? «Ho trattato sempre tutti con modi diretti in un involucro di umiltà. Con me ha pagato, per ora. Anche all’Inter, con giocatori quasi coetanei. Con Cassano parliamo la stessa lingua, quella  della strada, quella con cui si guadagna il rispetto sotto casa. Che non si ottiene perché hai i soldi o la bella macchina, ma per quello che sei come persona».

Avvocato Strama, ma il calcio è tornato prepotentemente nonostante la laurea in Giurisprudenza. «L’allenatore deve gestire tutto. Ha una mediaticità di rappresentanza. È una sorta di comandante della nave, parla prima e dopo la partita. Le domande che ti fanno sembrano sempre cercare un capro espiatorio. Ma io non mi giustifico mai: non mi sottraggo alla responsabilità di motivare le scelte. Dico: prendetevela con me. Uso la stessa espressione quando litigo con qualcuno». E in questa storia non poteva mancare la mamma. «Mi ha dato un grosso aiuto, come spesso accade. Lei faceva: “giurisprudenza+calcio=procuratore”, e rompeva le scatole al mio ex procuratore affinché mi trovasse un lavoro. Non mi andava giù, era la commistione di due mondi per me autonomi, che “intorbidiva” entrambi. Finché lui le ha detto: è un bravo ragazzo, giocava bene ed è intelligente. Perché non lo fai insegnare ai ragazzi? E mi indirizzò a questa sperduta scuola calcio di Monte Sacro, un quartiere di borgata romano, l’AZ Sport. Mi diedero 200 euro al mese di rimborso, perché venivo da San Giovanni e dovevo attraversare Roma alle sei del pomeriggio – quando ci vorrebbe l’elicottero! –: classe ’85, allievi sperimentali, avevamo 10 calciatori e la metà dei palloni. “Guarda che siamo ad agosto, che ti aspetti!”, fu il commento del presidente. Io, che l’ultimo campo che avevo calcato era il Dall’Ara di Bologna, pensai: mi sembra di sognare! Non la conoscevo ancora, ma questa locuzione milanese sarebbe stata perfetta. L’anno dopo, la vittoria di questa squadra sconosciuta destò l’attenzione di tutti».

La squadra più forte? «L’Olimpyque Marsiglia della mia adolescenza. Avrebbe scritto un triennio entusiasmante, vincendo la Coppa dei Campioni, ma allora aveva giocatori ancora poco conosciuti: Barthez, Deschamps, Chris Waddle. Coi miei amici sostenevo che questa squadra avrebbe potuto battere chiunque. Incontrò il Milan, e lo mise in grande difficoltà a San Siro; al ritorno, lo sconfisse con una tattica capolavoro». Attrice preferita? «Monica Bellucci: all’inizio non era capace, poi è diventata brava. Stimo la vendicatrice di Kill Bill, Uma Thurman». Aggiunge: Charlize Theron, l’ex modella arrivata all’Oscar. «Il fatto è che, in certe cose, penso di essere montato al contrario: i consigli non mi buttano giù, mi confermano ad andare avanti». Come quando ha accettato l’Inter. «Di’ di no, per il tuo bene!», gli dicevano in molti, mentre Moratti maturava la promozione di Strama. «In quello spogliatoio non durerai 20 minuti... Stessa storia con Cassano. Mai ricevuto tanti consigli, anche da persone vicine: “Non prenderlo, le ‘cassanate’ saranno la tua fine”. Ma se sono convinto di una cosa, il parere contrario mi fa pensare che “io vedo cose che altri non vedono”. Se è questo a fare la differenza fra gli allenatori? No. Punto uno: a parità di idee valide, cosa comunque non scontata, mi sento di tirare fuori questa sorta di equazione: è migliore l’allenatore che riesce a trasmetterle alla squadra. Lo dico sempre ai miei calciatori: posso avere tutte le idee del mondo, ma se non riesco a trasferirvele, rimane che io ce le ho – e magari mi trovate fra un po’ a far lezione a Coverciano (dove si preparano gli allenatori italiani, ndr)! –, però non vanno in campo. Un modello? Mourinho, il precursore da questo punto di vista. Dal punto di vista didattico non ho mai avuto la fortuna di vederlo allenare: è come se avessi visto la torta confezionata, non come l’ha fatta. Ho letto anche il suo libro, ma non è la stessa cosa».

«L’intelligenza di capire cosa puoi applicare, e quanto, delle tue idee, in relazione al materiale calcistico che hai. Questo è il segreto, tutto qua. Altrimenti un allenatore, il migliore del mondo, vince con tutte le squadre in cui va: invece non è così». Questa è la qualità principale per un allenatore secondo il tecnico dell'Inter. E cosa si impara? «La gestione del calciatore. Che per me è forse la differenza fondamentale tra giovanili e prima squadra: da una parte hai a che fare con una omogeneità di calciatori per fascia di età, dall’altra hai un giocatore di 34 anni e uno di 20, che non possono allenarsi allo stesso modo per carichi di lavoro, recuperi, lavori integrativi. E non è che trovi il manuale di Zanetti o del 18enne della Primavera». Preparazione personalizzata, gestione mediatica, schemi. E il colpo d’ala del mister? «L’intuizione fortunata sui cambiamenti di ruolo di alcuni giocatori è stato un denominatore comune della mia vita professionale. Tutto è cominciato in quella prima squadra di periferia. C’era questo ragazzo, Matteo Petroni, che giocava terzino destro ed era stato preso da una delle società dilettanti capitoline che stanno sotto Roma e Lazio. Dopo un po’ era stato scartato. Si presentava al campo ad accompagnare il fratellino e diceva: nun gioco più, tanto c’ho provato... e io, co ’sti chiari de luna, gli dissi: vieni a fare qualche allenamento con noi, te tieni in forma, te rifai gli addominali. Matteo mi guardava, avevo solo 23 anni… però cominciò ad allenarsi. Faceva continuamente gol. Da tutte le parti, gol. Gli dicevo: ma te sei sicuro che sei un terzino? E lui rispondeva: mister, nun me di’ gnente, io ho sempre giocato lì, non ce l’ho fatta perché tutti gli altri sono raccomandati… Un giorno lo prendo e gli dico: il centravanti s’è fatto male, gioca tu lì. Morale: 46 gol, noi vinciamo, lui è capocannoniere e alla fine è andato alla Ternana. Ho il mio carattere. E riesco sempre a essere me stesso, cambiando anche salotti. Per me è un pregio: la persona che hai di fronte può apprezzare o meno, ma capisce che sei vero. Credo sia piaciuto anche a Moratti. Mi chiamò e siamo stati due ore a parlare, io, lui, il figlio e i due direttori. Mi ha messo il blocco davanti: “Mi dica tutto ciò che pensa dell’Inter”. Ho risposto: premesso che potrei parlare a lungo del campionato primavera che sto facendo, con sincerità – non sono qui a venderle un prodotto – devo dirle che non ho visto tante volte la prima squadra, spesso giochiamo in concomitanza. E non sono il tipo che si rivede la partita su Sky. Lui ha concluso: non m’importa di ciò che dicono gli altri, sei il nuovo allenatore». E arriva la mattina dopo, primo allenamento: come si gestisce la paura in questi casi? «Il consiglio più bello che mi dà mia moglie prima delle partite è: fidati del tuo istinto, è ciò che ti ha portato fin qui. Ma con Dalila scherzo sempre: se va male, un posto nel New Jersey penso di trovarlo…».

E la politica? «La seguo. Fin dal liceo. Poi però l’interesse è andato scemando, man mano che la commistione tra destra e sinistra è cresciuta. Il gioco bipartisan, gli incroci, le alleanze, a un certo punto hanno tolto identità a entrambe...». Ma anche il calcio non è tutto da amare. «Adoro il contrasto, il gol, il prato, i tifosi. Mi ha sempre dato fastidio la labilità dei giudizi, pure quando ero semplice consumatore davanti alla tv. Anche se poi magari il segreto del pallone è che pure mia nonna può dire questo non è bbono. Tranne Messi, di qualsiasi giocatore, dopo 10 partite che sbaglia, si comincia a dire: è finito. Nel basket ci sono le statistiche, un metro oggettivo. Ecco perché il calcio non sfonda in America: la prestazione è difficilmente quantificabile. Nel football che dati usi? I passaggi riusciti? Magari ne hai fatti 50 al giocatore dietro!». Per un allenatore è anche peggio. Non fai in tempo a sederti in panchina e già dicono che la formazione te la fa il capitano Zanetti, un senatore come Cambiasso... «E io faccio un mix, tipo sondaggione!», ci scherza su. «Quando sei sicuro di te, ascoltare è la cosa più intelligente, non farlo è arroganza che porta danni. Io mi fido del mio staff, dei giocatori. Che non vuol dire che uno ti dice “gioco io, quell’altro no”. Vuol dire: mister, dobbiamo stare attenti qui a sinistra o a destra. Poi se sono convinto della mia idea, quella resta». E racconta. «Avevo 33 anni, ero nella fase della vita in cui uno si convince che non esiste più la donna ideale. La famosa metà della mela. Avevo conosciuto tantissime ragazze, concludendo che un uomo si deve accontentare. Tutte quelle che conoscevo magari erano belle ma vuote, e se profonde non mi trasmettevano niente». Poi è arrivata Dalila, sua moglie. «Gli avvocati del mio studio avevano insistito per farmi giocare un triangolare a calciotto con i legali della Regione e una sezione del Tribunale. Alla fine, alzo gli occhi e vedo questa splendida ragazza – il mio tipo preciso – che faceva l’hostess a una premiazione. Inavvicinabile, troppa gente intorno. Quando chiedo informazioni, mi viene detto di lasciar perdere: è corteggiatissima, però ha una storia importante. Già questo avrebbe ammazzato un cavallo, ma aggiungono: sta partendo, passerà un anno in Spagna. Volevo solo vedere se aveva anche qualcosa dentro... Un mio conoscente l’approccia e lei gli dà la mia risposta “ideale”: sono fidanzata. Lui insiste, le dice: “Guarda che Andrea è un bravo ragazzo, e poi è bello”. Alla fine lei, scocciata, dice: “Ok, vediamolo”. Cercano su Google, e come in un film, qual è la prima foto che appare? Quella in cui pesavo 15 chili di troppo. Il mio amico mi chiama la sera: lascia perdere, game over! Ma che ha detto di me?, chiedo. “È stata gentile: un tipo”. Dovevo risolvere almeno la figuraccia. Gli ho chiesto di inoltrarle un lungo messaggio: mi scusavo per essere stato goffo e invadente, ma spiegavo che nell’epoca dei rapporti virtuali non c’è niente di male nel dire a una ragazza che è bella e “metterci la faccia”. Alla fine cede e mi dà il numero». E dopo un anno di fidanzamento arriva il matrimonio. Come con l'Inter dei Grandi dopo la Primavera nerazzurra.

Sezione: In Primo Piano / Data: Ven 16 novembre 2012 alle 08:30 / Fonte: Sette
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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