Il prossimo 22 dicembre, Beppe Bergomi spegnerà 60 candeline sulla torta di compleanno. Per celebrare la ricorrenza, la Gazzetta dello Sport propone un'intervista allo Zio sulle pagine di 'Sportweek', in cui l'ex capitano interista racconta sé stesso, dagli inizi di carriera alla vita da commentatore tv, commentando alcune foto storiche che lo riguardano. Ecco alcuni stralci.
GLI ESORDI - "Quello è mio cugino Giorgio, tiene in mano la bandiera del Milan, e l’altro sono io, ero biondo con i capelli ricci. Sì, ero milanista: embé? Mai avuto problemi a dirlo. Mio papà era milanista, l’ottanta per cento dei settalesi tifava Milan. Oggi all’Inter ci sono una decina di italiani: Dimarco è nato interista, ma gli altri? Se fosse stata una malattia, sarei stato male quando il Milan mi scartò perché avevo i reumatismi nel sangue. Drammi? Zero: non avevo dolori e soprattutto potevo continuare a giocare a pallone, con i miei amici e nella Settalese. Poi da Treviglio arriva un osservatore, Pino Bussi, e mi segnala all’Inter: mi volevano anche la Juve, il Milan, soprattutto il Fanfulla, ma vado a fare un provino a Rogoredo e lì comincia tutto, comincia la mia carriera. Torno a casa e dico a mia mamma: “Io vado all’Inter”. Mi era piaciuto tutto di quell’ambiente, avevo sentito il cuore battere quando Anselmo, il magazziniere, mi aveva consegnato la borsa. Scarpe a sei tacchetti, scarpe con i tacchetti di gomma, scarpe da ginnastica: alla Settalese ne avevo un paio e dovevano bastare per tutto. E poi la tuta, quella maglia bella pesante. Il magazziniere mi fa: “Mi raccomando, ti deve durare tutto l’anno”. “Certo, ci mancherebbe”, ed ero già corso dagli amici per fargli vedere tutto".
DA ALLENATORE - "Era il 2013, saltavo con i miei ragazzi e intanto pensavo: e adesso che ho vinto ’sto campionato Beretti con l’Atalanta, cosa voglio fare da grande? Era stata una finale sentimentalmente bellissima e anche durissima: 4-1 a Interello, capisci? Io che batto la mia vita, io che più vado su con l’età e più soffro se c’è di mezzo l’Inter, e quando affronta il Milan o la Juve seguo la partita in piedi, facendo avanti indietro, e a mia figlia che se la guarda tranquilla dico sempre: “Tu sei un’incosciente”. Festeggiavo ma sapevo che il mio cammino di allenatore era arrivato a un punto di svolta: cinque anni prima, nel 2008, avevo iniziato nell’Accademia Inter, poi il Monza, poi la porta dell’Atalanta aperta da Gabriele Zamagna, volevano darmi subito la Primavera ma il saggio Mino Favini disse: “Parti con la Beretti”. Mi andava benissimo: così potevo conciliare con i miei impegni a Sky. Però quel campionato vinto significava che sarei stato messo di fronte ad una scelta, dall’Atalanta: o allenatore, e prendi la Primavera, o commentatore. Scelsi la mia comfort zone, Sky. Un anno da allenatore a Como, due o tre anni fermo, poi il richiamo del campo e sono tornato all’Accademia Inter. Ce l’ho sotto casa, alleno gli Allievi under 17 e li faccio giocare con il 4-3-3 o il 4-4-2. Ma con i 2005 usavo il 3-5-2, i campionati li ho vinti tutti con il 4-3-1-2: decido il sistema in base alle caratteristiche di chi alleno, è la scelta più saggia. Com’era saggio Bagnoli: il mio maestro per le relazioni è stato Gigi Simoni, ma se parliamo di idea di calcio dico l’Osvaldo, che nel 1992 faceva già la difesa a tre pura, metteva Tramezzani alto. Io mi chiedevo perché, poi ho capito. Però ho cercato di rubare un po’ a tutti i miei allenatori: ero attento alla tattica, alle strategie già da giocatore e ho ancora due quadernetti di appunti che prendevo appena tornavo a casa, dopo gli allenamenti di Roy Hodgson. Scrivevo tutto, e oggi ogni tanto li ritiro fuori: ci trovo ancora delle situazioni innovative".
DA COMMENTATORE - "Qui sto studiando, prima di analizzare una partita da seconda voce. Sono i nostri compiti a casa: giornali, video delle squadre da commentare visti su Wyscout e dati Opta. La redazione ci inonda con pagine e pagine di statistiche, ma io seleziono molto, non mi piace riempire di dati, scelgo solo cose funzionali: cerco di stare sul momento, di inquadrare gli attimi più significativi della partita, per farla capire il meglio possibile. Oggi mi viene naturale e non mi sono mai dovuto dire “Ma che scemenza hai detto?”, anche perché chi fa la seconda voce è favorito, abbiamo i replay, più tempo prima di parlare, e invece il telecronista se non becca al volo il marcatore va in crisi per tutta la partita. Però quando nel 1999 vennero a propormi questo ruolo risposi d’istinto: “Guardate che avete sbagliato persona, io non sono uno che ama parlare”. Invece il primo provino fu una specie di sentenza: “Hai i tempi televisivi”. Però quella sera di agosto, la mia prima telecronaca per il Trofeo Berlusconi, ero molto più agitato di quando anni prima andavo in campo. All’inizio andavo in difficoltà per i giudizi, ci stavo male: “Sei un interista”. “Sei troppo poco interista”. Ancora adesso con i social è dura, ti massacrano, ma ho trovato la mia massima: “Dì tutto quello che pensi sia giusto dire, cercando di non essere scontato: tanto tutti non li puoi accontentare”".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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