Intervista della Gazzetta dello Sport a Marco Bogarelli, presidente di Infront Italy. Tanti spunti interessanti, ecco qualche stralcio.

Presidente Bogarelli, è lei il vero padrone del calcio italiano?
"Non cerco di limitare il mio business, sarei un cattivo manager. Non c’è una posizione dominante perché non esercitiamo quel tipo di politica. Ci muoviamo in base alla profittabilità del business, che significa far consumare più calcio. Tutto ciò l’abbiamo ottenuto portando risultati, stimolando la crescita. Non è che ora io mi fermi perché qualcuno mi dice che domino qualcosa: la mia agenda non è di controllo ma di profittabilità. Se non la realizzo mi licenziano. Faccio parte di un gruppo che ha come maggiori azionisti dei fondi di investimento, il cui mestiere è comprare e vendere. Siamo in vendita tutti i giorni, anche adesso: ci sono cinesi e americani interessati che vogliono sapere quanto Infront crescerà nel futuro. Figurarsi se mi fermo". 

La Serie A ha incassato introiti-record dai diritti tv proprio nell’era in cui ha perso terreno rispetto alle altre leghe. Dove sta il cortocircuito?
"Quando eravamo i nobili del calcio, fino a 10 anni fa, il prodotto non era globale. Oggi lo è, oggi l’attenzione si polarizza su pochi brand, tutti vogliono un vestito di Armani: è lo stesso nel calcio, il mercato latino-americano di Real e Barcellona si è trasformato in un mercato globale. La crescita organica del consumatore mondiale ha portato alla polarizzazione di pochi marchi, noi non l’abbiamo colta".

Ricetta?
"Lo stadio è la chiave di tutto. Nell’attesa, con investimenti di qualche milione di euro a club, si possono rendere friendly gli stadi attuali. Oggi il tifoso a casa ha troppi vantaggi rispetto a chi segue una gara dal vivo: replay, commenti, statistiche, diretta gol. Molte società, dall’Inter al Milan alla Juve, sentono l’esigenza di allestire la sport production: è importante, ma non basta aggiungere nani e ballerine, il core business resta la partita. Se lo stadio avesse il wifi, se anziché cinque televisori ne avesse mille coordinati da una regia, lo spettatore potrebbe godersi l’arrivo dei pullman delle squadre, le interviste, gli spogliatoi, gli highlights, i replay. Bisogna far sì che la gente passi più tempo allo stadio e che consumi, come in un centro commerciale". 

In Lega non si parla mai di questi temi.
"Non è proprio così. La sensibilità c’è ma i presidenti sono concentrati sul campo. Però, visto che le tue linee di ricavi richiedono competenze specifiche dai media al marketing all’hospitality, devi essere contaminato da quello che succede nel mondo. Il fatto che in A ci sia uno scenario così eterogeneo di associati deve portare ad avere driver di cui ci si fidi. E questi driver sono giustamente Juventus, Milan e Inter, anche se c’è sempre il sospetto che i soldi se li becchino loro. Il tasso di litigiosità in Lega è ancora abbastanza elevato per avere un approccio sereno. Ma bisogna sforzarsi di fare uno spettacolo adeguato ai tempi: non abbiamo né Cristiano Ronaldo né Messi, qualcosa dobbiamo inventarci. In Germania sono ripartiti dagli stadi: nel 2006 i giocatori della Bundesliga facevano ridere rispetto a oggi. E poi è anche una questione di disponibilità". 

Ma non preoccupa lo stato di salute del calcio italiano, a lei che quel prodotto deve venderlo?
"È vero che la A è un marchio da rinfrescare, ma ci ha regalato il +58% dai diritti esteri, anche se le agenzie interessate sono scese da 7 a 3. Semmai è sbagliato il sistema d’ingresso alle competizioni Uefa. Non esiste che l’Italia versi 270 milioni per i diritti tv di Champions ed Europa League e abbia solo due squadre più una nella coppa più importante. Ci sono cinque Paesi, Italia compresa, che fanno sì che la Champions esista alimentando il 70% del suo fatturato". 

Sta riesumando il progetto della Superlega?
"Dico che l’attuale format non è adattabile alle nuove logiche del calcio. Non voglio un sistema chiuso ma uno aperto che privilegi un ranking concepito anche sul business. Via l’Europa League che non ha senso, sì a una Champions con 6 italiane di diritto, al pari di inglesi, spagnole, tedesche e francesi. Milan e Man Utd si sono affrontate solo 6 volte dalla nascita della Champions. Perché così poco?". 

Cosa ci dice della sua vicinanza a Berlusconi? 
"Non ho mai lavorato un minuto per Fininvest o Mediaset. Mi occupo di televisione dal 1981, come potevo non incrociare i destini di Berlusconi che ha inventato la tv privata in Italia? Sono amico di Galliani, ma ai tempi di H3G, che firmò con Juventus, Milan, Inter e Roma, noi di Media Partners ci trovammo a competere proponendo l’accordo con Vodafone a tutte le altre squadre". 

Quindi non è stato un favore a Mediaset l’esito dell’assegnazione dei diritti della Serie A ‘15-18.
"Il bando era chiaro, i pacchetti erano stati definiti per piattaforma e l’abbinamento Sky-Fox non era possibile per la regola del “no single buyer”. Non puoi pensare di vincere perché fai il furbo: i contratti si firmano per reciproca soddisfazione. È sembrato strano, semmai, che qualche club spingesse per accettare l’ipotesi di 779 milioni di ricavi rispetto ai 943 incassati in questa maniera. Strano, molto strano". 

Sezione: News / Data: Mer 12 novembre 2014 alle 11:44 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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