Marco Materazzi è il protagonista della quarta puntata di 'Campi di Battaglia', programma in onda su Alpha dedicato alle storie dei personaggi che hanno lasciato il segno nella storia dello sport italiano recente. L'ex difensore dell'Inter si è raccontato senza filtri, partendo dagli inizi della sua carriera sui campi delle serie minori: "Su un campo di battaglia ci sarò sceso 500/600 volte, a partire dai campi in terra battuta, con i ragazzi che ti tiravano la polvere in faccia. Alcuni episodi risalgono a quando ero un ragazzino. In certe partite le squadre avversarie imponevano il risultato. Una volta mi ritrovai con un dischetto del rigore segnato a 6 metri dalla porta invece che 11 - ricorda -. Ho passato tutto il primo tempo a provare a cancellarlo. Alla fine perdemmo 1-0 e, malgrado la sconfitta, ci ritrovammo con tutti i finestrini del pullman rotti. Comunque, Sicilia a parte, fatti così potevano capitare anche nel Milanese e invece sono cose che non dovrebbero verificarsi, in nessun luogo. Nel calcio e nello sport in genere la passione penso che sia tutto. Poi calcare campi come San Siro ti sembrano teatri, ma questo è quello che ci insegnano da bambini: non è mai tutto rose e fiori”. 

LA FORZA DEL CARATTERE – "Sono orfano di madre da quando avevo 15 anni. Rimanere orfani non è mai bello, non c’è età per accettarlo. Con mia madre credevo di avere un buon rapporto, mentre lei si preoccupava per me a mia insaputa: in punto di morte era convinta che io fossi il figlio più debole, l’aveva confessato a mia zia. Ho un gran ricordo dei suoi sacrifici, che hanno permesso anche a mio padre di fare carriera e questo mi ha insegnato a replicare anche nella vita. Credo che già quello poteva bastare e avanzare per formarmi il carattere".

TRA BASKET E CALCIO – "In tanti mi dicevano di non sarei arrivato da nessuna parte, uno di questi era mio padre: lui voleva che io giocassi a basket. Quando ero piccolo mia sorella vedeva i Mondiali e mi diceva ‘Ma tu giocherai lì prima o poi?’. E io le rispondevo ‘Stai tranquilla, ci arrivo’. Avevo 14-15 anni e i Mondiali li ho vinti a 33. Succede quando meno te l’aspetti. Zidane? Lo amo. Non perché mi ha dato la testata, ma perché mi ha fatto vincere una Coppa del Mondo in cui ho segnato due gol. Quello del pareggio è stato grazie a un calcio d’angolo telecomandato di Pirlo, io sono andato sopra tutti e ho avuto fortuna. Ho dedicato il gol a mia madre: era come andare in cielo. Poi ho calciato il secondo rigore, l’adrenalina poteva fare brutti scherzi ma è andato bene perché segnammo tutti. Non dimenticherò mai il gol di Grosso: ero buttato per terra che piangevo di gioia. Periodo più duro della carriera? Nel 2004 contro il Siena, quando provocai troppo Cirillo e poi degenerò. Lui mi voleva picchiare entrando nel tunnel: quando entrammo continuava a provocarmi e nel momento in cui mi è venuto addosso io gli ho tirato il primo schiaffo. Il guardalinee ha visto tutto. Con quel gesto ho messo in difficoltà anche la mia famiglia, anche se loro sanno quello che sono realmente". 

I TATUAGGI – "Ho tantissimi tatuaggi perché mi piace ricordare sulla mia pelle ciò che faccio: ho la mia data di nascita, il nome di mia figlia (che ho chiamato come mia madre), la Coppa del Mondo, la Champions League e lo Scudetto del 2007, il primo sul campo con l’Inter. Non lo vincemmo in casa della Roma, ma promisi a mio figlio che avrei portato lo Scudetto a casa a Siena. Lì ho fatto gol in mischia in area di rigore, c’era voglia e determinazione di vincere quella partita: se non avessi segnato io l'avrebbe fatto qualcun'altro. Il secondo gol invece fu su rigore che fui costretto a battere per due volte. Quella è stata la partita di Marco Materazzi. Da quanto amo i tatuaggi vorrei avere una pelle nuova per poter ricominciare, anche se dovrei cancellare il mio passato". 

L’ANNATA DEL 2010 – “L’anno del Triplete, ogni ostacolo che avevamo davanti lo scaraventavamo via. Volevamo vincere tutto, e così è stato. La finale di Champions contro il Bayern Monaco? Giocammo un ottimo primo tempo, Mourinho ci disse che stavamo giocando troppo bene e che dovevamo giocare peggio per fare il raddoppio in contropiede. Io pensavo: ‘Questo è matto’. Poi arrivò il 2-0 di Milito che è entrato nella storia. Il ricordo più bello è stato tornare all’alba a San Siro davanti a più di 50 mila persone che ci aspettavano: queste cose ti fanno passare tutte le sofferenze, ti riempiono l’anima".

 

Sezione: In Primo Piano / Data: Gio 01 marzo 2018 alle 23:46
Autore: Stefano Bertocchi / Twitter: @stebertz8
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