"L’Inter arriva bene a questa partita, ancor più di quanto non dicano i risultati, che non sono sempre quelli che vogliamo. L’ultimo pareggio con la Roma è un punto guadagnato per il nostro obiettivo: è l’unico che ci resta, non possiamo fallire. Dobbiamo giocare come nel derby". Chiaro e diretto come in campo, Lautaro Martinez parla così alla Gazzetta dello Sport nel giorno di Inter-Juventus.

Si aspettava di fare più strada nelle coppe?
"Sì. Con la Lazio siamo finiti ai rigori, poi la sfortuna... In Champions abbiamo fatto una grandissima prima parte, poi ci siamo fermati. In Europa League ero molto fiducioso, perché vedevo la squadra carica. Invece siamo usciti perdendo in casa, eravamo tutti molto tristi, feriti".

La distanza dalla Juve è colmabile già la prossima stagione?
"Vedendo i punti, si direbbe che la differenza è grande. Ne siamo coscienti, ma nel prossimo torneo dobbiamo cambiare questa cosa. Siamo un grande club, è obbligatorio farlo. Il mio grande sogno è vincere un campionato con l’Inter. Ma per riuscirci non basta parlarne. È necessario convincersene tutti psicologicamente: i tifosi, i dirigenti e noi giocatori".

La sua stagione è stata come se l’aspettava?
"Ho messo insieme tanti minuti, sono contento. In precampionato ho giocato e segnato tanto, poi mi è toccato andare in panchina e alla fine per quello che è successo a un compagno sono diventato titolare. E poi ho segnato nel derby...".

Ha mai pensato di andar via quando giocava poco?
"In quei momenti ti passa di tutto per la testa. Arrivavo dal Racing dove giocavo sempre, qui avevo davanti un monumento interista come Icardi, capitano, capocannoniere. Sapevo che sarebbe stato difficile giocare, lui non sarebbe mai uscito: o l’uno o l’altro, insieme mai. Così pensavo all’Argentina, alle occasioni sprecate, a un mucchio di cose. Ma parlando con la mia famiglia non è mai mancata la fiducia".

A proposito di famiglia. Qual è la prima cosa che ha detto a suo papà dopo il «cagon» a Spalletti?
"L’ho chiamato e gli ho urlato che non avrebbe dovuto farlo, non si sarebbe dovuto permettere. È un essere umano, può sbagliare, è stato calciatore quindi ha capito subito. Cancellò il tweet, ma era tardi, si è scusato in primis con me, che è la cosa importante, poi io chiamai il tecnico per chiedere scusa da parte mia e sua. Abbiamo fatto una riunione a tre: io, Zanetti e Spalletti".

Lei è diventato titolare dopo il caso Icardi. Ha mai parlato con Mauro durante quei giorni?
"Certo, a lungo. Gli ho sempre ribadito quanto fosse importante per la squadra, però gli ho anche detto che i problemi che c’erano tra i dirigenti e la sua moglie e agente andavano risolti direttamente da loro. E che noi come squadra non dovevamo essere coinvolti, non eravamo parti in causa, eravamo ai margini. Siamo coscienti che lottiamo per un solo posto: fuori ci troviamo bene insieme, in allenamento poi ognuno fa il suo".

Un gol in Inter-Juve o in Coppa America?
"No, non scelgo: prima segno alla Juve, poi con l’Argentina".

Non le pesa quel 10 sulle spalle?
"No, non ho mai avuto dubbi. Quando conobbi Ausilio mi chiese quale numero avrei preferito, gli risposi il 10, è davvero speciale".

Anche Dybala veste la 10.
"Paulo è un giocatore di grande livello, con cui uno vorrebbe giocare sempre, perché ti aiuta a migliorare o a segnare di più. Poi io sul suo futuro non posso dire niente...".

È cambiato il suo modo di giocare dal Sudamerica all’Italia?
"Cambiato no, ho dovuto aggiungere degli ingredienti".

Li ha aggiunti Spalletti?
"In allenamento mi corregge molto la tecnica, il controllo di palla. Mi dice sempre di essere sorpreso dalle mie capacità di apprendimento".

Ha rimpianti per una Champions vissuta da comparsa?
"Spero che la prossima sia la mia. Prima qualifichiamoci. Poi certamente avrò qualche conoscenza in più per affrontarla".

La sua carriera è sempre andata molto di fretta. Non c’è il rischio di correre troppo?
"Io mi do sempre degli obiettivi a breve termine: ora la qualificazione europea, poi la Coppa America, dopo la Champions. Pensando di poterla vincere".

Addirittura vincere?
"Se pensi alla vittoria tutto diventa più facile. Se pensi ad arrivare secondo, non vinci mai".

Quando rinnoverà il contratto?
"Dovete chiederlo al direttore".

Perché la chiamano Toro?
"Al Racing due compagni che erano con me alla pensione - Brian Mansilla e Santiago Reyes – mi diedero quel soprannome per via della forza che mettevo in campo. E perché chiedevo ogni volta il pallone come fosse l’ultimo da giocare".

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Sezione: In Primo Piano / Data: Sab 27 aprile 2019 alle 08:15 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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