Gianfranco Bedin, uno delle leggende della Grande Inter, parla alla Gazzetta dello Sport anche dell'Inter attuale, lui che di finali di coppa se ne intende.

E era il 1965, l’anticipo sul mitico Eusebio, a San Siro. Inter-Benfica. Come sono i ricordi?
"Freschissimi, come se fosse ieri. Mamma mia! Ho giocato tre finali di Coppa dei Campioni, le due contro il Celtic nel 1967 e contro l’Ajax nel 1972 sono andate male, eravamo anche molto stanchi. Ma la vittoria contro il Benfica, quella sera, quella notte, mi ripaga di tutte le amarezze".

Non aveva ancora 20 anni, titolare. Cosa le disse il Mago?
"Aveva i suoi slogan. Tipo: “non credo alla sconfitta”. O “chi non dà tutto, non dà niente”. E noi abbiamo dato davvero tutto. L’anima, la maglia, il cuore".

Quella sera segna il suo amico Jair, la freccia. Adesso è volato via. Eravate molto amici?
"Sì, andavamo insieme in auto ad Appiano, era un ragazzo meraviglioso, un brasiliano allegro. Helenio Herrera spesso ci faceva fare del lavoro supplementare. Diceva: “Io vi alleno prima la testa, poi le gambe, dovete diventare più veloci. E tu, Bedin, anche nelle marcature”".

Marcando marcando, Gianfranco Bedin vince tre scudetti, una Coppa dei Campioni e una Intercontinentale. Non male. Grazie soltanto a Herrera?
"Grazie a tutti, dalla società ai compagni e ai tifosi. Eravamo qualcosa di speciale, eravamo la Grande Inter".

Si dice spesso: quei giocatori avevano più fame. Ma è proprio così?
"Molti di noi erano poveri, come Jair in Brasile. Qualcuno veniva dalla miseria. Io a San Donà abitavo in una baraccopoli. La chiamavano “Mauthausen”. Quando pioveva entrava l’acqua in casa. Io da ragazzo andavo a fare il cottimista nella fabbrica delle carrozzine: più ruote montavo, più soldi portavo a casa. Il calcio era l’unica possibilità di fuga. Io volevo arrivare, sono arrivato. Di corsa e continuo a correre. Mai fermarsi".

Sezione: News / Data: Mer 21 maggio 2025 alle 17:14 / Fonte: Gazzetta dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni
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