È André Onana il protagonista della nuova puntata di 'Culture', il format di DAZN che racconta culture e tradizioni dei calciatori di Serie A. Il portiere dell'Inter parte dalla sua città di origine: "Nkol Ngok. Quando vivevo lì ero molto piccolo, quello che facevamo di solito era svegliarci, fare colazione, andare a lavorare in città. Mi ricordo che vicino a casa mia passavano i treni, e dovevamo attraversare i binari. E camminare 40/45 minuti per raggiungere il luogo dove lavoravamo, i campi. Passavamo le giornate così lavorando, stando insieme, poi tornavamo a casa. La cosa più incredibile è che non avevamo la luce. Avevamo delle lanterne. E camminavamo con queste per farci strada nel buio. Lì non c’era una scuola, io sono andata a scuola ma non nel mio villaggio. L’ho frequentata a Yaoundé, a Douala, perché i miei genitori si spostavano lì per lavoro. Io e mio fratello eravamo bambini quindi li seguivamo".
Si giocava a calcio lì?
"Sì, ma senza aspettative. Quello che sto vivendo io è un sogno! Essere un giocatore dell’Inter è una cosa che non potevo nemmeno immaginare nella mia infanzia in Camerun. Essere dove sono... Vedi, non so se riesci a capirmi perché vengo da un posto totalmente differente, da un villaggio dove non c’era la luce e da una famiglia umile. Immagina cosa vuol dire per me. Se quando ero piccolo mi avessero detto 'tu giocherai nell’Inter'... non mi passava nemmeno nell’anticamera del cervello, non potevo sognarlo. In quel momento era impossibile pensare ad una cosa del genere".
Quando hai pensato di fare il portiere?
"Da sempre, da bambino, perché mio fratello Christian, il maggiore, faceva il portiere. Io ho quattro fratelli. O meglio, adesso siamo in quattro però eravamo in cinque. Uno di noi ci ha lasciato. Però quando mi fanno una domanda del genere, istintivamente dico che siamo cinque: lo porto sempre con me. Quattro maschi, io sono il più piccolo. Il fratello maggiore è quello che ci ha lasciato. Christian, mio fratello anche lui portiere, che ora gioca in Indonesia, quando giocava in Camerun lo accompagnavo sempre alle partite, gli portavo la borsa. Vedevo come giocava e mi innamorai del ruolo del portiere".
Cosa sarebbe diventato Onana se non avesse fatto il portiere?
"Nella vita? Poliziotto, perché mi piace tantissimo. Mi piacciono le responsabilità. Essere portiere mi piace molto, però una posizione molto complicata. Tu fai bene oggi e la mattina dopo sbaglio. Devi essere molto forte mentalmente perché ogni tuo errore è un gol".
Dove si trova l'Academy di Eto'o?
"A Douala, a circa 300 km dal mio villaggio. Ero un bambino, avevo 10 11 anni. Tornavo da scuola quando mi chiama mia madre per dirmi 'Andre è una cosa importante da dirti, è venuto l’allenatore dell’Academy che mi ho chiesto se ti va di andare lì a giocare'. E così fu. Vivevo a casa dell’allenatore. Sono rimasto nel letto Academy per circa quattro anni. Fu molto divertente quando il mister mi chiamo per dirmi che sarei andato al Barcellona. Io non sapevo nulla, allenatore chiamo mia madre dicendo che il Barcellona mi voleva. Non ho saputo nulla per una settimana abbondante, e nel frattempo giocavo, giocavo, giocavo. Con la fondazione di Eto'o facciamo molti viaggi in Europa e in uno di questi l’allenatore mi disse 'André, prendi tutti i tuoi vestiti per questo viaggio' e io 'mister, non è la prima volta che viaggio perché mi dici queste cose? Tra due settimane dobbiamo tornare a casa perché devo prendere tutto?'. 'Tu devi preparare le tue cose perché te l’ho detto io'. Inizio ad innervosirmi, perché devo essere l’unico a prendere tutti i vestiti? Mi arrabbio, penso che non sia normale, così decido di chiamare mia mamma. Le dico 'mamma, il mister vuole che porti tutte le mie cose per due settimane di viaggio, questo non è normale'. Lei rideva. Mio fratello che aveva sentito mia madre, dice in sottofondo 'mamma diglielo, digli la verità'. Mia madre allora mi dice 'calmati perché la notizia importante da darti: tu andrai al Barcellona'. Scusa io vado al Barcellona e tu me lo dici così? Li ho iniziato a rendermi conto che sei andato al Barcellona. Quando sono arrivato lì, ho fatto un provino. Il test andò bene e così firmai a 14 anni con il Barcellona. C’erano un sacco di talenti. Non direi che ho imparato lì a giocare con i piedi, perché già prima sapevo farlo. Quello che ho imparato al Barça è la fase di impostazione dal basso. Imparare a leggere le situazioni. Fare anche questo dipende da con che modulo scende in campo. Non è la stessa cosa giocare con il 4-3.3 e il 3-5-2".
Per te è più facile giocare a tre o a quattro?
"Per me a quattro perché sono abituato così. Però tutti gli schemi vanno bene, se ci si intende bene si gioca a calcio. Sono io che mi sono abituato all’Inter. Perché ho il mio modo di giocare e interpretare il calcio, soprattutto in porta. Negli ultimi vent’anni il ruolo del portiere è cambiato molto, si è trasformato. Io quando stavo imparando il mestiere mi dicevano 'non giocare mai la palla al centro', però ora io ti dico che se c'è spazio devi darla dentro. Dalla sempre dove c’è spazio. E poi quando si parla del portiere, mi riferisco al portiere moderno: un giocatore forte con i piedi, forte nell’uno contro uno, coraggioso, che ti trasmette sicurezza e che sia forte sulla palle alte. Se hai un portiere del genere hai un punto di forza notevole rispetto a chi non ce l’ha, giochi sempre in superiorità numerica. Se gli avversari vengono a prenderti nell’uno contro uno, la superiorità la crei con il portiere".
In Liverpool-Real sia Alisson che Courtois hanno commesso delle papere, ma oggi non sembra un dramma.
"Per migliorarsi bisogna sbagliare. Se non sbagli non impari, quando vinci non impari nulla. Perché la vittoria copre tutto. Possiamo giocare male, però se vinciamo nessuno parla di errori, di sconfitte. Essendo portiere devi imparare a convivere con l’errore. Io non penso a non commettere errori, so solo che succederà. Però se succede la domenica non deve essere il problema, è un rischio calcolato. Questo fa parte della gavetta, dello studio della posizione. Devi essere forte mentalmente, perché se tu pensi a non sbagliare, sbagli. Di quei due errori per me non bisogna neanche parlarne perché sono portieri fortissimi che corrono dei rischi. Se tu corri rischi commetti degli errori. Se tu non li corri ovviamente non li commetti, però così non aiuti la squadra. Non correre rischi per me significa buttare via la palla. In quel momento sono nel mio mondo: ho avuto la fortuna di giocare in grandi stadi partite importanti, ho nella testa la mia musica. In quelle partite sono talmente concentrato da isolarmi dalla realtà. Non voglio pensare a tutta la gente che mi sta guardando, non voglio farmi schiacciare dal peso della pressione. Faccio il mio lavoro e torno a casa. André vai, fai il tuo e torna a casa".
Hai mai giocato una finale con la paura di perdere?
"Sì, e giocai con paura, tantissima paura. E dopo quella partita mi sono detto 'non giocherò mai più con questa paura addosso'. Se con l'Inter giocassimo contro Real e Barcellona io non ho paura. Se sono 22 contro 11 non ho paura. Non devo avere paura in campo, di niente di nessuno. Ho perso la finale di Europa League per paura, quella partita l’abbiamo persa ancora prima di giocarla. Dovevamo giocare contro il Manchester United, arriviamo a Stoccolma, dove si giocava la finale del 2017. In allenamento chiamo Van der Sar e gli dico 'non sono stato bene, io questa finale non la gioco'. Lui mi risponde dicendomi 'io sono vecchio e non ho i guanti, tu vai a giocare questa partita'. Avevo 19 anni. Ci svegliamo la mattina della partita con sette giocatori malati. Eravamo giovani. Eravamo nel tunnel: vedo De Gea poco più indietro di me, sei mesi prima giocava la PlayStation usando lui. E ora sto giocando contro di lui. Ero stato promosso da poco all'Ajax in prima squadra. Sempre nel tunnel Amin Younes, uno dei più importanti giocatori che avevamo, viene da me e mi dice 'Hai visto il braccio di Valencia? Uff, non posso giocare contro di lui!'".
Dimmi qualcosa sulla storia del Camerun.
"Del Camerun so che siamo una ex colonia francese, e che con il tempo siamo diventati un paese multiculturale. Pensa che si parlano più di 200 lingue compresi i dialetti. Quella è una terra benedetta da Dio perché a tutto. Per me l’Africa è il continente più ricco che ci sia, il Camerun in particolare, abbiamo tanto".
Cosa ti ha detto Handanovic la prima volta che vi siete incontrati?
"Ci siamo salutati tranquillamente, mi ha detto 'benvenuto'. Io già lo conoscevo, non so se lui conoscesse me. Mi sta aiutando molto. Però quando ci siamo visti la prima volta mi ricordo il suo volto: serio. Io e lui siamo diversi sotto questo punto di vista perché io sono allegro, mi piace cantare, chiacchierare. Lui invece è molto calmo".
Cosa è successo con Dzeko contro il Porto?
"Sono cose che succedono nel calcio. Gliel’ho detto, se dobbiamo fare questo per vincere, allora facciamolo sempre. Se devo gridare in quel modo a Dzeko per vincere, lo faccio. Sono io che decido certe cose. Quando io ho la palla, tutti la vogliono: c’è Lautaro, Çalhanoğlu, c’è Brozovic, tutti. Però sono io a decidere e quello che decido io tutti devono rispettarlo. Posso sbagliare, ma devi accettarlo. Alla fine quello che mi ha detto a me è piaciuto. Lui vuole la palla, la prossima volta la gioco a lui. Io devo aiutare la squadra e se questo significa discutere con Dzeko o con Lautaro, devo avere la personalità di farlo. Perché dalla mia posizione vedo bene tutto il campo. A volte Skriniar e Acerbi mi dicono 'André, a sinistra' perché se sono concentrato sul cross non riesco a vedere da altre parti. Loro in quel momento vedo nel campo meglio di me e io devo fidarmi di loro".
Parlaci della doppia parata col Porto.
"Io credo che la cosa importante sia parare, non importa che la parata sia bella. Ah, un’altra cosa: il pallone rimbalza e non la blocco, la respingo perché so che ci sarà Barella. Lo faccio perché ho fiducia nei miei compagni nella ribattuta. È una cosa che a me piace molto".
Non parliamo di quello che è successo in nazionale, ma poi sei tornato a giocare con i bambini in Camerun.
"Io sono del Camerun, sono nato e cresciuto lì e probabilmente morirò lì. È il mio paese. Amo quel paese più di ogni altra cosa. Per il bene del paese, a volte, bisogna farsi da parte. In quei giorni giocavo a calcetto, stavo con i miei genitori, con i miei vecchi amici, con la famiglia, tranquillo. Alla fine è importante stare con loro, frequentare persone che ti conoscono. È gente con cui sono cresciuto e sa come sono da sempre da prima di andare al Barcellona, all'Ajax, all’Inter. È gente per bene, gente che mi piace. Adoro quei momenti".
Poi spazio a delle immagini: si parte da Neuer.
"Per me è il miglior portiere della storia del calcio. Ha rivoluzionato la posizione, grazie a lui siamo portieri che ora giocano bene a calcio. Nel Mondiale del 2014 ha fato qualcosa di incredibile che non avevo mai visto. Neuer ha fatto in modo che pensassi diversamente. È il mio idolo".
Gigi Buffon.
"Essendo un portiere mi è difficile parlare di Buffon. Stiamo parlando di uno dei portieri più grandi della storia del calcio. Ho giocato contro di lui in Coppa Italia. Negli spogliatoi, andai da lui per chiedergli la maglietta, e lui mi diede anche i suoi guanti. Rientrai nel mio spogliatoio felice come un bambino".
Maignan.
"Sì, qualche anno fa nel 2017 avevo detto che i portieri neri dovevano lavorare il doppio degli altri. In quel momento ero l’unico che stava giocando ad alti livelli. Era la verità. Ora sono felicissimo di vedere Mendy, di vedere Maignan, di vedere gli altri. Io Mike lo conosco bene, abbiamo giocato molte volte contro. Ci conosciamo, siamo amici ma non intimi. E lui è un grandissimo portiere mi piace giocare contro di lui. Abbiamo giocato contro quattro volte. Chi è il migliore? Non te lo so dire, ma nella mia testa so chi è il migliore".
Adesso una frase che ti diceva sempre tua madre.
"Mia madre mi ripeteva sempre una cosa: dormi sempre nel letto che rifai. Significa che se fai le cose fatte bene, le cose andranno bene. Se le cose le fai male, andranno male".
Autore: Stefano Bertocchi / Twitter: @stebertz8
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