Difficile, complicato, al limite quasi impossibile cercare di analizzare la non partita giocata dall’Inter al Castellani. Saranno le preoccupazioni legate al mercato, le voci che circondano inesorabilmente l’ambiente; chi va, chi resta, chi è soddisfatto, chi no. Sarà che a Empoli hanno faticato un po’ tutti; i cugini hanno rischiato grosso, la Roma ha vinto su autorete, la Lazio ci ha lasciato addirittura le penne, la Juventus ha vinto oltre ogni merito grazie ad una punizione di Pirlo e ad un gran gol di Morata, ma soffrendo e vedendo i sorci verdi per lunghi tratti della partita.

Però sono onesto; un bel chissenefrega di quello che hanno fatto le altre ci sta davvero bene. Per natura tendo a non guardare mai gli avversari. Non mi interessa e lo trovo un atteggiamento da perdenti. Perché, personalmente, parto sempre da un  presupposto: siamo l’Inter e dobbiamo giocare per un unico risultato. Vincere. Dovunque. O, perlomeno, entrare in campo consci e consapevoli del ruolo che questa maglia ti porta ad avere. Se non altro per rispetto verso un intero popolo che segue con amore e passione i colori del cielo e della notte.

La squadra vista in Toscana ha fatto male. Al di là di qualche errore tattico, al di là di una formazione schierata da Roberto Mancini che potrebbe far storcere leggermente il naso ai puristi dei ruoli rigidi che ciascun giocatore dovrebbe tenere sul campo, al di là dei censori di turno, di quelli che non vedono l’ora di sottolineare sbavature e piccole incongruenze del tecnico jesino. Che, parliamoci chiaro, ci stanno in un percorso di crescita. Lenta, forse ancor più lenta di quanto il Mancio potesse immaginarsi.

Ecco perché, passando oltre le elucubrazioni mentali di quelli bravi, di quelli che ne sanno di calcio, toccati dallo Spirito degli Dei del pallone, il sospetto che mi attanaglia e che continuo a portare avanti, a dispetto di quanti possano non concordare con le mie personalissime idee, è che questi ragazzi scendano in campo senza la leggerezza e la mentalità vincente che inevitabilmente deve contraddistinguere chi indossa la nostra maglia.

Il modulo, il cambiamento che gran parte dei tifosi nerazzurri chiedeva, si vede a sprazzi. E non sempre. Perché un conto è trasferire su carta ciò che un allenatore chiede ai suoi giocatori, un altro è vederlo messo in pratica. Pecchiamo non tanto sul tenere le posizioni in campo, quanto piuttosto dal punto di vista della concentrazione e della personalità. Ecco, la maggior carenza di questa rosa è proprio la mancanza di veri leader, riconosciuti dai compagni. Di chi, nei momenti di difficoltà, si carica sulle spalle l’onere e l’onore di trascinare la squadra. 

Abbiamo dei campioncini in erba, il fatto è indiscutibile ed innegabile. Ma, per l’appunto, campioncini. Con tutti i difetti che la giovane età porta con se. L’insicurezza e l’attaccarsi a tutta una serie di fattori esterni alla partita, lo scaricare le colpe su chissà quali congiunture astrali, fanno parte del retaggio lasciato in eredità da chi è rimasto seduto in panchina per un anno e mezzo. L’esempio più eclatante sono state le dichiarazioni di uno che in questa squadra è entrato con le stigmate del protagonista e del trascinatore, nel dopo partita al Castellani. Quell’uscita infelice – contro di noi fanno tutti la partita della vita – è un grave campanello d’allarme. È un modo come un altro per non riconoscere le proprie incapacità, spostando di fatto il problema non sulla scarsa attitudine ad emergere in partite complicate, quanto piuttosto sul trovare “colpe” presunte nell’ardore agonistico di avversari che tecnicamente sono assai più scarsi di te.

Empoli è un passo indietro. Di quelli che non ti aspetti e proprio per questo ancor più doloroso. Maturato nella neghittosità di chi scende in campo con la sicumera di essere più forte per diritto divino. Mancini, dopo il Genoa, aveva saggiamente catechizzato i suoi ragazzi. Il "c’è ancora molto da lavorare" è stato disatteso dai nostri eroi. Che hanno disputato una partita insipida, senza grinta, senza logica, senza cattiveria, senza la minima traccia di trance agonistica. Perché è colpa degli altri che contro di noi giocano alla morte.

Ma, scusatemi, questo non è ciò che chiedo e voglio da chi porta i miei colori sulle spalle. Caro Presidente Thohir, urgono atleti con in primis personalità ed ardore da collocare all’interno di questa squadra. Non di chi insulta i compagni in campo e l’allenatore negli spogliatoi, sebbene il tutto dettato da una sorta di frustrazione anche comprensibile per uno che pensava di poter essere decisivo e si è trovato a fare la riserva di un ventunenne dalle belle speranze. Servono profili in grado di fare da collante tra i vari reparti. Qualcuno che, chiamato in causa, non abbia paura delle responsabilità me che da queste ultime venga esaltato. Che vada in aiuto del compagno e che non chieda il pallone sui piedi trotterellando in un metro quadrato.
Perché è colpa degli altri che contro di noi giocano alla morte.

I lavori in corso proseguono. E l’unica certezza che mi accompagna è che a fare il direttore ci sia Roberto Mancini. Tra i pochi in grado di curare questa sensazione di non essere che ci attanaglia.
Amatela, nonostante qualche scivolone inatteso.
E buona settimana a Voi.

Sezione: Editoriale / Data: Lun 19 gennaio 2015 alle 00:00
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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