"Dobbiamo migliorare nelle due aree di rigore, sia offensivamente che difensivamente, per segnare gol e non subirne". La dichiarazione lapalissiana fu pronunciata da Pep Guardiola più di 4 anni fa, dopo un deludente 1-1 casalingo con il Middlesbrough che aveva pareggiato i conti nell'extra time con il futuro atalantino Marten De Roon. Una massima che non è entrata nell'immaginario collettivo dei patiti di calcio come 'il mio centravanti è lo spazio' ma qua l'originalità di Pep a livello comunicativo c'entra il giusto: l'uomo che ha contribuito a far progredire il Gioco, seguendo le orme dei maestri Michels, Cruijff e Sacchi, voleva più prosaicamente dimostrare che – pur teorizzando il dominio della palla in 110x75 metri – alla fine conta soprattutto quello che sai fare negli ultimi 17 metri. Un problema relativo al Barcellona, dove gli è capitato di allenare un certo Lionel Messi, che è poi diventato pane quotidiano quando ha preso il comando del Manchester City, club senza tradizione ma ricco e ambizioso in una Premier League altamente competitiva. Era approdato, insomma, nel campionato del mondo dove gli allenatori sperimentano la bontà dello loro idee tattiche. Già nell'esperienza tedesca al Bayern Monaco, il tecnico catalano aveva capito che la riproducibilità del possesso palla esasperante per gli avversari di matrice barcellonista era impraticabile quando slegata dai fuoriclasse della Generación Dorada come Xavi e Iniesta. Ecco perché alle difficoltà proposte dall'impatto con i molteplici modelli del campionato inglese, Guardiola ha saputo rispondere solo in un secondo momento aggiornando il Tiqui-Taca con un calcio dove il controllo della sfera non è fatto solo passaggi brevi e continui ma anche di strappi di una mezzala totale come De Bruyne. L'uomo che lega insospettabilmente Guardiola a Conte, ieri e oggi: è da una traversa colpita a porta vuota dal belga, in un City-Chelsea del 2016, che è di fatto partita la cavalcata verso la vittoria del campionato inglese di King Antonio, da quel momento in poi riconosciuto com top anche a livello europeo. Dal possibile 2-0 per i Citizens, si è passati al ribaltamento di fronte che ha portato all'1-1 di Diego Costa, il prologo di una rimonta che si è consumata fino all'1-3. La più classica delle vittorie in cui nascondi il gioco espresso col risultato. Logico quando hai costruito una squadra di un certo tipo che può contare su un portiere come Courtois, uno stoccatore come Diego Costa al suo massimo in carriera, oltre a fantasisti del calibro di Hazard e Willian, spietati quanto basta sotto porta. Ad anni di distanza, da Londra a Milano, il modello adottato da Conte è più o meno lo stesso, con qualche variante sul tema anche determinata dalla forza degli avversari italiani che non è paragonabile a quella dei sui ex nemici inglesi. Oggi succede che l'Inter - infischiandosene del gap, ormai parola vuota - fa e il bello e il cattivo tempo con la squadra che ha dominato a livello nazionale negli ultimi nove anni per due volte nel giro di quindi giorni, con un'unica differenza: il punteggio finale. Se si eccettuano i minuti di spaesamento in cui i bianconeri si sono sfogati successivamente all'uno-due omaggio offerto dal trio Young-Handanovic-Bastoni martedì sera, i nerazzurri hanno dominato i campioni d'Italia in carica sotto tutti i punti di vista. Segnando, è il caso di dirlo, appena tre gol al netto della quantità industriale di occasioni create. Nel secondo caso, nel ko amarissimo in Coppa, senza Lukaku, totem offensivo, e Hakimi, la vera differenza tra la versione dell'Inter contiana 1.0 e 2.0.

Senza per forza disquisire sul calcio liquido di Pirlo e sulla sua applicazione dalla tesi in covercianese al campo, una cosa appare chiara a quattro mesi mesi dall'inizio della stagione: l'Inter - diffidando dalle narrazioni che circolano nelle ultime ore - non è mai stata dominata da nessun avversario. Al primo dato oggettivo se ne somma un altro altrettanto incontestabile: raramente, l'Inter ha saputo capitalizzare i momenti – lunghi o meno lunghi – in cui la sua superiorità è stata manifesta. Non è un caso che la Beneamata, dopo l'esilio europeo, ora sia con un piede fuori anche dalla Coppa Italia dopo aver ottenuto il pass per le semifinali solo al 119' contro una Fiorentina che pure si era limitata a produrre poco in attacco. Difficile individuare i veri limiti della squadra, in alcuni momenti identificati con l'inadeguatezza tra i pali di Handanovic e in altri con la scarsa mira degli attaccanti. Le due aree, appunto, di cui parlava Pep in quel trascurabile 5 novembre 2016. Discorso che oggi diventa più che mai attuale per spiegare almeno in parte lo status di squadra sempre nel limbo (tra meriti non riconosciuti e gloria da inseguire) dell'Inter. Se a inizio annata l'avanzamento del baricentro non aveva senso dal punto dei vista dei rischi/benefici (troppi gol subiti in campo aperto), ora l'equilibrio raggiunto tra fase difensiva e offensiva viene spezzato da errori individuali che Conte non può correggere. Un vero e proprio cortocircuito che si può evitare solo continuando a rimanere aggrappati ai concetti di gioco proposti dall'allenatore, anche e soprattutto nei momenti in cui vengono a mancare i riferimenti. Il modello Conte, come tutti i modelli, funziona dal momento in cui lo fanno funzionare i giocatori che lo applicano. Storia vecchia quanto il calcio, eppure è una verità che spesso viene persa di vista. 

Sezione: Editoriale / Data: Gio 04 febbraio 2021 alle 00:00
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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