Lunghissima intervista del Corriere dello Sport a Gabriele Gravina, presidente della Figc. La chiacchierata fa venire a galla anche possibili scenari rivoluzionari per il futuro della Serie A.

Ritorno dei tifosi sugli spalti. Perché, secondo lei, il calcio viene sempre dopo?  
"Voglio fare autocritica. Dobbiamo riconquistare un ruolo sociale. Far comprendere ciò che rappresentiamo, in senso economico, civile, valoriale. Finora a rappresentarci sono stati i nostri difetti e le nostre criticità. Il risultato ottenuto riaprendo il campionato a giugno, senza contraccolpi epidemiologici, è un grande punto a nostro vantaggio. Per quello di buono che abbiamo fatto, ora possiamo concorrere alla pari con altre organizzazioni sociali ed economiche al rilancio del Paese". 
 
Lei crede che il premier Conte manterrà le promesse? Che il 17 ottobre vedremo Inter-Milan con il pubblico? 
"Ho molta fiducia nel premier, che ho incontrato con grande piacere. E ho fiducia nei ministri della Salute e dello Sport. Ma la fiducia richiede risposte in tempi brevi. Perché c’è un protocollo di grande qualità, e ci sono tutte le condizioni per una riapertura parziale". 
 
Però i bilanci sono tutti in rosso, il mercato è stato un baratto senza soldi, i debiti crescono e la cassa langue. Come se ne esce? 
"I danni ci saranno. La Fifa parla di 14 miliardi di dollari, l’Italia fa parte del sistema. Le nostre stime sono pesanti. Il botteghino vale il 15 per cento ricavi, il suo taglio parziale farà più magre le casse. Gli sponsor sono crollati, perché viene meno il business dell’ospitalità negli stadi. Luglio, agosto e settembre sono andati in bianco. E il 30 incominciano le scadenze dei pagamenti. Dovrebbero salvarci i contratti con i broadcaster, ma un calcio senza pubblico si vende male. Ce la faremo anche stavolta, non chiediamo soldi, ma ci si aiuti almeno a fare impresa, velocizzando le procedure". 
 
Bastano i play-off per rendere contendibile lo scudetto? O bisogna rivedere anche l’equilibrio tra campionati nazionali e competizioni europee? 
"A me pare che le gare internazionali stiano crescendo di anno in anno. Noi invece non riusciamo a cambiare al nostro interno. Si teme che i play-off penalizzino le società che sono abituate a vincere e che investono di più". 
 
Qual è il modello che ha in testa? 
"Sto lavorando a un campionato diviso in tre fasi, con una final eight per assegnare il titolo". 
 
Sulla sperimentazione del Var l’Italia è stata un apripista, con tante polemiche. Per spegnerle servirà il challenge? 
"Sarebbe un contentino, ma le polemiche non cesserebbero. Meglio perfezionare la tecnologia e l’uso. Ci vogliono regole più omogenee a livello internazionale, più esattezza sull’applicazione. A Coverciano stiamo istituendo il controllo centralizzato e un’attività di formazione per arbitri e dirigenti. Non ha senso il Var a chiamata, quando tutte le immagini dubbie ricevono una verifica corretta e trasparente". 

I presidenti stranieri stanno cambiando l’antropologia del pallone. Sono una ricchezza o la prova di una rinuncia dell’imprenditoria nazionale? 
"Tutte e due le cose. I club sono società di capitale. In un’economia di mercato un valore aggiunto può arrivare dall’esterno. Ma è chiaro che abbiamo qualche problema a coinvolgere risorse interne". 
 
La difficoltà di costruire nuovi stadi è ancora un fattore deterrente? 
"È la questione da affrontare con tutte le energie possibili. Stadi e settori giovanili sono gli asset del rilancio, senza i quali siamo condannati al fallimento". 

Sezione: Rassegna / Data: Gio 17 settembre 2020 alle 10:42 / Fonte: Corriere dello Sport
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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