Non solo calciomercato. Nei pensieri del neo-presidente dell'Inter, Beppe Marotta c'è ancora lo stadio come altra priorità progettuale. Ed è proprio sul discorso stadio e infrastrutture, fulcro di un discorso ben più ampio sul futuro del nostro pallone che il numero uno della Beneamata e amministratore delegato area sport risponde durante il programma Tg2 Dossier, che ha dedicato una puntata speciale sul futuro del gioco più amato dagli italiani: "È vero che l'essenza del calcio è quella di giocare undici contro undici e le regole grossomodo sono sempre le stesse. Ma dal punto di vista formale dell’identificazione di una società di calcio c’è stata una trasformazione: si è passati da un fenomeno sportivo e sociale a un modello di business" ha detto.
Le soluzioni per risolvere il calcio in crisi quali sono?
“Intanto essere innovativi. La seconda cosa è creare dei formatori, maestri, educatori e allenatori che possano avere un dialogo continuo con i ragazzi per farlo crescere fisicamente e umanamente, inculcando loro i veri significati dello sport ovvero il senso di appartenenza, la cultura del lavoro, il senso della sconfitta. Non si può sempre vincere ma si deve esser capaci di trarre insegnamenti positivi anche dalla sconfitta quindi direi formazione, innovazione e competenza. Queste sono situazioni che aiutano a creare un modello vincente”.
Sul cambiamento del sistema calcio:
"È cambiato nel concetto di evoluzione dei tempi. Lo sport è lo specchio della nostra Nazione: prima la nostra Nazione era all’avanguardia dal punto di vista imprenditoriale quindi ogni città rappresentava un polo industriale in ogni settore. Oggi sono venute meno le grandi industrie e con esse anche i grandi imprenditori, sinonimo di mecenatismo. Le società di calcio erano spesso nelle mani di industriali, mecenati, che garantivano la sopravvivenza degli sport quasi come un vero e proprio debito sociale verso la collettività nella quale avevano avuto un grande successo. Oggi tutto questo non c'è più, per cui il modello è diventato un modello di business e da questo punto di vista ci dobbiamo reggere solo seguendo e perseguendo quello che è il concetto della sostenibilità".
Qual è la differenza tra ieri e oggi?
"La grande differenza oggi è data proprio per quello che questi giocatori rappresentavano a livello interiore nei valori che riuscivano a vivere e trasmettere agli altri. Oggi siamo davanti a un calcio molto consumistico, siamo davanti a figure nuove che sono procuratori, agenti, agenzie, che vogliono far sì che il loro assistito sia soprattutto quasi un oggetto commerciale, di divulgazione della propria immagine, e spesso trascurano quella che è la missione principale, cioè quello di essere il rappresentante di un sistema che aiuta ed educa i ragazzi anche attraverso il processo di emulazione per diventare i calciatori e gli uomini del domani".
Ci sono due aspetti che possiamo ancora migliorare:
"La valorizzazione dei diritti televisivi, che va però di pari passo con lo spettacolo che offriamo. E la seconda è quella di incrementare gli introiti dal match day, quindi dalle partite vere e proprie, cercando di ottimizzare la presenza di spettatori o di aziende all’interno della casa del calcio che è lo stadio. E qui si apre uno spiraglio negativo che è legato alle strutture italiane, che in Europa sono il fanalino di coda. Con uno stadio moderno che garantisce ospitalità e sicurezza, anche gli introiti chiaramente potrebbero aumentare".
Perché è così difficile fare uno stadio in Italia?
"È difficile in primis perché in Italia la burocrazia è complicata. In Inghilterra sono arrivati ad abbattere un'icona come Wembley, in Italia si fa fatica ad abbattere qualsiasi tipo di struttura. Le difficoltà nascono proprio da questa burocrazia, che prevede tanti passaggi e tante autorizzazioni. Pertanto prima di arrivare a un'autorizzazione finale, c'è quasi uno scoramento da parte di potenziali investitori, perché il tempo sicuramente non gioca a favore. E quindi qual è il rimedio? I grandi stadi sono di interesse nazionale, sono strutture che dovrebbero davvero far capo al Ministero delle Infrastrutture e quindi eviterei i passaggi dal Comune, provincia, sovrintendenza e tutto questo iter burocratico. C'è troppa lentezza, ci vuole più immediatezza e meno burocrazia e così forse si possono coinvolgere anche gli investitori".
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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