"Non pubblico tante cose sui social, mi piacerebbe raccontare un po' più di me perché magari sembro lontano dai tifosi. Voglio spiegare meglio chi sono". Comincia così l'intervista a cuore aperto concessa da Nicolò Barella al conduttore radiofonico Matteo Caccia per il suo canale Youtube. (qui il video).
Hai 4 figli, che tipo di padre sei?
"Mi piace tutto dell'essere padre, è una scelta che ho fatto da giovane. Sono cresciuto in una famiglia numerosa, tutti hanno fatto i genitori. Ho visto crescere, mi ha sempre incuriosito questa cosa. Quando ho incontrato Federica, mia moglie, ho deciso di mettere su famiglia perché l'ho sempre desiderato. Spero di essere un buon padre, presente, essere partecipe della loro vita e renderli felici nel tempo che posso dedicare loro quando non ci sono le partite".
Ti piace la cucina?
"Sì, mi piace visitare i ristoranti. Prima è nata la passione per il vino, cerco di dilettarmi in cucina".
I calciatori sono vissuti come dei miti, persone fortunate che vivono in un mondo lontano dal nostro: come è la tua giornata tipo, quando non ti alleni?
"Io non posso svegliarmi alle 11, devo accompagnare i bambini a scuola. Mi sveglio alle 7 e mezza, faccio colazione e porto le bambine a scuola. Vado al campo, pranzo nel centro sportivo, poi vado a casa. Alle 3 riprendo le bambini e le porto a fare sport. Dopo cena sto con mia moglie. E' una giornata impegnativa, ma lo faccio con piacere".
Hai cominciato a giocare a calcio a 3 anni, nella scuola calcio di Gigi Riva.
"Il calcio resta una passione perché è un gioco prima che un lavoro. Ci sono cose non piacevoli in questo mondo, le critiche, soprattutto sui social. Questo diventa un impegno per la testa, magari porti malumori a casa. Nella vita di un calciatore conta, da piccolo non pensavo ci sarebbero state così tante sfaccettature".
Che ricordi hai di te ragazzino?
"I sacrifici li facevano i miei genitori, è quello che oggi farei per i miei figli: li ringrazio di tutti gli insegnamenti. Per me non è stato un peso perché ho coltivato tante amicizie, mi sono divertito da morire. Posso solo dire grazie al calcio. Da grande le cose diventano più impegnative. Non so se ci sia stato un momento in cui ho detto che sarei diventato un professionista. Quando venivo convocato in nazionale ho cominciato a pensarci, visto che lì vanno i migliori. Dopo il salto dalla Primavera alla prima squadra non ero pronto, ma mi dicevo che potevo starci lì. Magari non pensavo di diventare un giocatore dell'Inter o della Nazionale, ma ho sempre lavorato perché succedesse. Era già tanto allenarmi con i miei idoli, una roba folle. Sono pochi che arrivano lì e sono pronti, a tutti serve tempo di imparare e maturare".
Perché alcuni arrivano in alto e altri no?
"Ho vissuto tante situazioni, ci sono motivi differenti. Per esempio, i miei genitori hanno fatto sacrifici, altri non hanno potuto. Poi ci sono di mezzo gli infortuni, l'emotività, il reggere la lontananza da casa. Ci sono tantissimi fattori, devi avere una forza interiore per fare le scelte giuste. A volte c'è la presunzione, lì è giusto che paghi".
Hai parlato del tuo attaccamento alla Sardegna, a Cagliari.
"La caratteristica più 'sarda' e 'cagliaritana' è di essere duro e tosto nelle idee e nel modo di essere. Il fatto di non 'vendersi', che forse non è la parola adatta. Io non mostro quello che non sono, io preferisco essere antipatico ma autentico. Sono onesto. Ci sono anche delle caratteristiche del mio modo di essere che non tutti concepiscono e che sto cercando di limare. Ma preferisco sbagliare che nascondermi".
Che Nicolò sei rispetto agli inizi?
"Sono cambiato tantissimo, mi piaceva fare le 'guerre', litigare, cose che non facevano bene a me e a chi mi stava intorno. Magari mi facevo dei film, ora sono molto più sereno, anche nell'interpretazione delle partite. Stare con i miei figli mi ha insegnato che ci sono problemi più grandi, ho capito che il calcio è importante ma esistono cose più importanti. Il pensiero altrui può essere importante, ma deve rimanere lì. Le vere cose della vita sono dentro casa".
'Sei bella come una protesta di Barella' recitava uno striscione su di te. C'è ancora quel Nicolò lì?
"Bella (ride, ndr). Sono cresciuto, ora ho più esperienza e cerco di essere meno impulsivo. Cerco di divertirmi di più, non sono più chiuso come prima. Non ho più voglia di vivere così, mi godo molto di più le fortune che ho. Anche in campo porto questo; prima volevo sempre dimostrare, ora posso anche mettermi da parte e non fare gol o assist ma aiutare i miei compagni. L'anno scorso o fatto due gol, ma è quella che mi ha reso più contento nella mia vita".
Quando arrivi a giocare una finale di Champions, riesci a ricordarti che il calcio è un gioco?
"E' faticoso perché, a prescindere da tutto, rimane il nostro palcoscenico, il momento in cui dimostrare che io sono forte, l'Inter e la Nazionale sono forti. Io ho sempre voluto dimostrare, quindi è difficile dire che il calcio è un gioco in quei momenti lì. Poi c'è l'adrenalina che ti dà San Siro, l'inno della Nazionale... Diventa una sfida con l'avversario, il momento in cui ti puoi esprimere, visto che nella vita non ci riesco. Una cosa che non farei mai fuori la faccio in campo, tipo tirare un calcio a un altro. In quel momento lì pensi che vuoi vincere. Ai miei figli dico di interpretarlo come un gioco".
La consapevolezza di essere forte.
"A me non interessa che uno mi dica 'sei il più forte', non mi tocca. Rispetto il pensiero di tutti, ma non mi tocca. Ciò che mi rende orgoglioso è quando un avversario mi fa capire che sono forte; i miei compagni mi fanno sentire Dio, ma lì c'è anche l'amicizia che condiziona. Mi è capitato che qualcuno in campo volesse la mia maglia, anche di giocatori forti: per me è un orgoglio".
Dopo il derby scudetto la prima cosa che fai è andare a salutare i giocatori del Milan.
"I pochi che erano rimasti, sì. Mi sono sentito di dare loro la mano, ma l'ha fatto anche qualcun altro. Io ho fatto questo gesto perché sono bene cosa vuol dire. Ho perso la finale dell'Europeo Under 19. Ho dovuto rinunciare a un Mondiale con le giovanili della Nazionale perché mi sono rotto una mano e i miei compagni sono arrivati terzi. Poi sono retrocesso col Cagliari, ho perso una finale di Champions League e perso una finale di Europa League: so cosa vuol dire perdere. Dall'altra parte, ho vinto scudetti, Coppa Italia, Supercoppa, Europeo... E' più facile spiegare cosa vuol dire vincere perché vedi che sto esplodendo di gioia. Perdere non sai cosa può comportare dopo, magari un'estate brutta, e a me è successo. Ti porta a dire: 'giocherò ancora una finale di Champions?' Non mi piace perdere, l'avrei volute vincere tutte le finali che ho giocato, ma è uno stimolo per riprovarci l'anno successivo. La testa di molti non funziona così. Io so cosa vuol dire perdere, so cosa può succedere nella testa di un giocatore anche nella vita privata. Il tifoso non ci pensa, ed è giusto perché deve fare il tifoso. Ci sono situazioni che non si vedono e che creano disagio".
Quali dettagli non capiscono i tifosi del vostro lavoro?
"Sono tante le cose che il tifoso non può sapere. Non è che uno entra in campo per fare male, non è così. Magari hai avuto un problema in settimana, di natura fisica ma anche altro. Il fatto è che il tifoso dice che devi fare bene o vincere una partita perché vali 100 milioni, ma allora fai tennis: il calcio è uno sport di squadra. Il tifoso vuole vincere, anche noi, però ci sono situazioni che non puoi controllare. La critica ci sta, ci mancherebbe, però non accetto il fatto che vengano messe in mezzo famiglia e vita privata perché non sai che cosa una persona sta vivendo. E' una cosa che mi dà fastidio, soprattutto se la vedo sui social perché rimane lì, non come al bar. Noi siamo umani, è diverso se la critica arriva all'uomo e non al giocatore".
Il fatto che il tuo cartellino valga tot è una spada di Damocle?
"Io sono arrivato dal Cagliari con una valutazione importante, ero il più pagato della storia dell'Inter prima dell'arrivo di Lukaku. Si erano create aspettative, ma io ho scelto quel progetto perché era la squadra migliore, ero sereno, ero solo felice. Stavo lasciando casa, amici e parenti, ma ero felice di fare uno step ulteriore. Non ho mai dato peso a questa cosa, ma per molti può essere un problema. Io a 27 anni mi sono realizzato nella vita, ma spero di vincere ancora. Non mi cambia niente quanto valgo, io gioco bene o male a prescindere dal cartellino. Ho conosciuto compagni e giocatori che sentono il peso del cartellino perché dà una scusa alla gente di criticarti di più. Si dice 'stai rubando i soldi', 'sei costato più di una casa'...".
Servirebbe un aiuto psicologico nel calcio?
"Si sono fatti step importanti in questi anni. Prima il calciatore era visto come un eroe, uno che non poteva avere problemi. Ora è molto più facile parlare anche con un post, facendo capire il tuo stato emotivo. Questo aiuta la gente a liberarsi, ti fa sentire più 'normale'. Io apprezzo molto questa cosa perché passo meno da eroe rispetto a quello che si pensi. La testa fa tanto, il fatto che ci siano delle figure che aiutano a confrontarti è molto importante".
Quando ti sei sentito solo come calciatore?
"E' successo nell'anno dello scudetto, quando tutti mi criticavano all'inizio della stagione dicendo che non ero il solito Barella. C'è stato un periodo in cui non rendevo per questioni personali. Era un momento in cui non avevo una grande passione per il calcio, era veramente solo lavoro. Non ho mai parlato con figure del genere perché ho una moglie con cui posso parlare di tutto. Ho parlato anche con compagni e amici, che hanno fatto una cosa importante dicendomi di superare quel momento, che ero forte. Poi è arrivato il gol col Napoli e da lì ho ripreso a fare meglio. Non mi sono sentito solo, ma sentivo di non aiutare abbastanza i miei compagni. Non mi sentivo inutile, ma non stavo dando quello che potevo dare. I miei compagni mi hanno sentire bene. Ora so come comportami se succede a qualcun altro".
La passione cala?
"Sì. Non è che va via la passione per il calcio, ma magari diventa pesante fare il ritiro, fare allenamento, fare le corse. Se ti succede a 26 anni come è successo a me, è un problema. Ero un po' spaventato da questo fatto, anche perché è molto difficile parlarne. Succede spesso, a tante persone e a tutti livelli. Smettere sarebbe stato troppo facile, ma sono momenti difficili".
Il ricordo più bello di una partita.
"Domanda difficile... Il gol di Napoli è stato molto importante perché è venuto in un momento difficile. Ma voglio ricordare i momenti belli: la partita in cui mi sono divertito tanto è stata la finale di Coppa Italia con la Juve vinta 4-2. Ho fatto gol dopo 5' e ho pensato 'è finita' perché eravamo forti. Poi abbiamo preso due gol a inizio secondo tempo e mi sono chiesto 'cosa sta succedendo?'. Lì mi sono divertito perché ho capito la forza mentale di tanti campioni, che si sono accesi e hanno detto 'ora bisogna vincere'. Me la ricorderò sempre quella partita. E' successo anche con la Fiorentina, sempre nella finale di Coppa Italia. E' bello perché lì si vede la mentalità di un giocatore".
Quando il mister urla lo senti?
"Sì, sì. E' difficile sentirlo in mezzo a 80mila persone, ma se ti concentri lo senti. Un allenatore legge la partita da fuori, ma a volte si comporta anche in maniera istintiva. In campo poi è il giocatore che prende le decisioni. Una partita la cambi all'intervallo, in campo che arrivi l'indicazione che cambia la partita è molto difficile".
Che posto è San Siro?
"Ho giocato in tantissimi stadi, a Wembley pure la finale di un Europeo. Ma San Siro ha un fascino diverso, lo dicono tutti quelli che vengono a giocarci. Il Camp Nou è l'unico che mi ha fatto effetto, ma è più aperto. San Siro sembra un'arena".
La seconda stella cosa significa per te che sei interista fin da bambino?
"Io sono sempre stato tifosissimo del Cagliari, il mio sogno era vestire quella maglia. Ho tanti parenti e amici che tifano Inter, quindi io ho gioito con loro per le tante vittorie. Per me l'Inter è sempre stata tra le grandi, ho sempre simpatizzato. Mi è sempre piaciuta la storia, i suoi colori... Quando vinceva ero contento come se avesse vinto il Cagliari. Per me Cagliari è il mio sangue, l'Inter è entrata nel mio cuore e nella mia vita. Avevo tante opportunità per andare via da Cagliari, più di un paio, erano squadre importante che non dirò mai. Molte mie scelte sono state dettate dal fatto che non potevo andare in certe squadre perché la rivalità tra tifoserie. La narrazione di quando sono andato via da Cagliari è stata distorta, mi spiace sia stata raccontata in maniera sbagliata. Quando c'è stata la possibilità di andare all'Inter, volevo il progetto anche perché c'era un allenatore che ha spinto per avermi (Conte, ndr). Non c'era possibilità che io dicessi no. Era un passo in avanti troppo grande che non potevo non fare. Ringrazio tutti i giorni chi ha fatto sì che io potessi vestire questa maglia, ora ne sono orgoglioso come se fosse mia".
Come ti ha accolto Milano?
"Super, super, mi ha accolto bene come persona e giocatore. Qui la mia famiglia sta benissimo. La bellezza di questa città è che puoi avere tutto senza essere dispersiva, questa è una cosa impagabile. Anche dal tifoso milanista ho ricevuto stima".
E' vero che i giovani stanno perdendo interesse verso il calcio?
"Per noi è diverso perché vediamo che fuori da San Siro, quando arriviamo, ci sono 50mila persone prima, 10mila dopo la partita. Noi non viviamo questa cosa, poi so che il calcio è diventato molto d'élite: per vedere una partita devi avere 10mila abbonamenti. Andare allo stadio è diventato più costoso, non è più una cosa popolare; noi purtroppo siamo fuori da queste dinamiche. Io personalmente non guardo tanto calcio in tv, ho rosicato per le partite di Champions perché eravamo usciti agli ottavi. Ma non c'è più la passione del bambino, non ce la faccio più a guardarmi tutta la giornata di Serie A dalle 15 fino alla sera. Mi piace il ciclismo, guardo anche 4 ore di tappa, e il basket, per quello mi svegliavo la notte per vedere la NBA".
Sei ossessionato dall'ordine?
"E' la verità. Anche in campo, non so se si nota. Molto spesso suggerisco la giocata al compagno, questa cosa dell'ordine mi ha aiutato a essere meno istintivo. Giocando da 6 anni col 3-5-2 so in che posizione deve stare un mio compagno. In casa è un problema (ride, ndr), ma è più forte di me".
Che rapporto avevi con Riva?
"Nel modo in cui interpreta la vita, nel regalarsi e non vendersi, è stato il mio maestro. Ho stimato il giocatore, era un gigante. La sua immagine l'ha sempre tenuta per sé o data a chi voleva lui. Per questo è stato così amato a Cagliari, era il più sardo dei sardi. La mia stima più grande era per questo aspetto, io sono così anche grazie a lui. Quando l'Italia ha vinto il Mondiale nel 2006, lui ha preso ed è sceso dal pullman dicendo ai giocatori di festeggiare loro. Questa è una cosa che nessuno potrà mai comprare. Mi rivedo molto in questo, io sono uno che si diverte, è successo anche durante la parata perché ho sentito questo scudetto molto mio. Però poi ho messo solo una foto su Instagram e basta. Non è la vita reale, gli scudetti li ho sempre festeggiati in una cena, con i miei cari. Poi è stata una cosa incredibile ciò che è successo al Duomo, poi l'ho festeggiato a casa. Quando lui è andato via, io ho fatto una scelta molto dura, non da tutti, che non è stata capita a Cagliari: non sono andato al suo funerale perché non volevo farmi vedere davanti a tutti. Non volevo essere lì mentre lo portavano via, farmi vedere in tv. Ho deciso di organizzare una cosa con suo figlio, portando un mazzo di fiori al cimitero. Una scelta che può essere condivisa o no, ma io sono uno a cui non piace apparire in pubblico. Mi sono spiaciute le critiche di chi mi ha definito 'piccolo uomo', è la cosa che mi ha fatto più male di tutte".
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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