L'arte di complicarsi la vita, di rendere difficile e avventuroso ciò che poteva essere tranquillo e privo di patemi, di dover soffrire e sudare quando bastava un sforzo in più per essere sicuri di tagliare il traguardo addirittura in anticipo rispetto alle concorrenti. L'arte dell'Inter. E così un terzo posto che era il minimo sindacale al termine di una stagione dove, uno dopo l'altro, gli obiettivi erano sfumati o gettati al vento o presi sottogamba, deve essere rincorso e inseguito fino alla fine (e al momento appartiene persino ad altri).

Sempre e solo perché mancano due caratteristiche fondamentali, ripetute e scritte fino alla noia nel corso dei mesi: la capacità di fare il salto di qualità nelle partite che contano (a parte pochissime eccezioni) e soprattutto quella di avere una mentalità vincente che a quest'ora avrebbe portato i nerazzurri ad avere praticamente in tasca la qualificazione in Champions. All'Inter è venuto il braccino corto nelle ultime settimane e questo è accaduto perché si è accontentata quando invece avrebbe dovuto accelerare, ha valutato come un male minore i pareggi contro Roma e Atalanta che poi, in fondo, denotano proprio quell'impossibilità di ragionare da grande squadra che gioca per vincere e chiudere i conti.

Il terzo posto è doveroso ma dovesse arrivare ci sarebbe comunque poco da festeggiare e tanto su cui riflettere. Le qualità tecniche, professionali e morali di alcuni si scontrano con le carenze tecniche, professionali e morali di altri in un modo che finisce inevitabilmente per diventare una colpa dell'allenatore. Sono successe troppe cose perché non si pensi a tanti cambiamenti, è mancata troppo una vera filosofia e una vera idea di gioco.

Può sembrare una sconfitta, l'ennesima rivoluzione, ma quando non si riesce a crescere allora le decisioni anche dolorose vanno come minimo prese in considerazione. Alcuni giocatori sono all'Inter da diverso tempo e loro stessi il salto di qualità definitivo non lo hanno saputo fare (molto probabile che sappiano farlo altrove, ma non è detto). Si è creata una negatività che va eliminata se si vuole costruire qualcosa di diverso. Poco importa dove stiano, e in quale percentuale, le colpe. Nelle grandi aziende succede così.

Le voci di mercato destabilizzano solo chi non è forte e strutturato, di testa e di gambe: il rischio distrazione e testa in vacanza con un certo anticipo era evidente tempo fa con tutti gli obiettivi significativi venuti a meno e la voglia di tanti di terminare la stagione prima ancora di pensare che la stagione andava però finita in un altro modo.

Spalletti è il volto più riconoscibile di una squadra che con lui ha trovato sì stabilità, ha raggiunto per la prima volta un traguardo dopo molto tempo (tornando in Champions) ma poi è letteralmente rimasta a guadarle, le stelle. Si è fermata lì. Una squadra prigioniera di un modulo a cui spesso sono mancati l'esterno destro e il trequartista, una squadra che adesso gioca stancamente come stanca è l'avvilente alternanza dei due attaccanti che si è scelto di mettere in panchina a turno per evitare guai ulteriori.

Ma anche in questo caso la scelta del male minore rischia di rivelarsi il peggiore perché Lautaro non ha dato continuità all'exploit di febbraio/marzo e Icardi, se lo scopo era quello, si è rivalutato poco con apparizioni che lasciano il segno più sui social che in campo. Il non scegliere chi dei due sia il titolare e non trovare mai il modo di farli partire assieme per scelta, ha finito per spuntarli e ora l'Inter paga l'assenza di gol dei suoi attaccanti con quella serie di pareggini che mettono a rischio il terzo posto. Terzo posto che può e deve essere ripreso prima che poi l'arte di cambiare (ciò che negli ultimi tempi ha frenato la crescita) ponga finalmente fine all'arte di farsi male (rimettendo tutto in discussione).

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Sezione: Editoriale / Data: Dom 12 maggio 2019 alle 00:00
Autore: Giulia Bassi / Twitter: @giulay85
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