È l'ultimo editoriale di questo 2015 con due facce opposte. Alla fine dello scorso campionato auspicavo una rivoluzione tecnica. Non immaginavo arrivasse in una dimensione tanto ciclopica. Il numero di giocatori arrivati in una sola sessione mi aveva preoccupato per la situazione inedita che si prefigurava. Le amichevoli erano poi terrorizzanti e il campionato sempre più imminente. 

La gestione del calciomercato nerazzurro era aeroportuale, chiunque poteva arrivare e chiunque poteva partire. Eppure dall’inizio del campionato il numero di vittorie consecutive ha messo a tacere la maggior parte delle perplessità, la prima sconfitta le ha clamorosamente riavviate. Il seguito della marcia nerazzurra ha poi sedato le diffidenze pur senza estinguerle. Le accuse stolide di gioco brutto e quelle clamorosamente prosaiche di associazione a vincere grazie ad un quantitativo sospetto di fortuna, le invettive a Mancini per la sua antipatia e "i suoi settimanali cambi di formazione", “se continua così non va da nessuna parte”, le analisi quasi comiche per spiegare le sue scelte (“lo fa per stupire”) e persino gli anatemi: "La fortuna finirà prima o poi e allora…”.

L’oggetto Inter, mutato radicalmente in tutto e per tutto, in forma e sostanza, in presidenza, dirigenti, allenatori, giocatori nel corso di un solo anno e mezzo, non è stato mai raccontato nella sua totalità. Un cambio del genere, così totale, non ha precedenti. L’Inter e il suo management sono andati contro le previsioni di carestia e ridimensionamento, causati dall’enorme debito, con una politica aggressiva e una strategia mirata per centrare i primi tre posti. Tutto in un anno in cui anche altre quattro squadre si sono ulteriormente rinforzate, partendo da una progetto tecnico ben più avanzato. Pensavo che tutti avrebbero compreso l’intento. Se la società avesse proseguito con l’austerity avremmo rischiato di vedere un cupio dissolvi dell’Inter e di quello che era sempre stata. Un avvizzimento dei progetti e delle ambizioni che avrebbero portato a una deriva, con scarse probabilità di ritorno. 

Mancini si trova ad allenare una rosa atipica e in costante evoluzione e involuzione. È una creatura che non dà punti di riferimento a nessuno, costruita facendo rinunce per comprare delle necessità. Il tipo di accuse mosse al tecnico non tiene mai conto che i principi tattici e le regole di gestione di un collettivo hanno parametri diversi e che il progetto, attualmente, può dare risultati prescindendo dai punti di riferimento. Le certezze di questa prima parte di stagione si chiamano Miranda, Murillo e Handanovic. Il resto è ancora un brodo primordiale in cui si sta cercando di dare origine al resto della terra nerazzurra. 

E ora lo dico chiaramente: la mia preoccupazione non è nella guida tecnica. Uno può anche non amare Mancini ma sarebbe ora che si tenesse d’occhio l’atteggiamento dei giocatori dentro e fuori dal campo. Due delle tre partite che l’Inter ha perso nel girone di andata sono state un capolavoro di autolesionismo, una totale assenza di approccio culminato con espulsioni e tentativi isterici di recupero della partita. Se questo fosse un campionato normale sarebbe più facilmente perdonabile. Quel primo posto che fa brillare gli occhi e le legittime speranze di lottare per il titolo fino alla fine è un elemento stabilizzante. Il problema sta nella coscienza dei giocatori e nel loro modo di restare dentro la stagione, perché se due volte su diciassette partite una squadra con quelle ambizioni entra in campo con quella approssimazione, è la prova che il fatto si ripeterà di nuovo. 

I fatti capitati negli spogliatoi al termine di Inter-Lazio sono paradossalmente positivi. Una squadra deve pulsare, non specchiarsi. Ma è un gruppo composto da giocatori coscienziosi abbinato ad altri che sono immaturi per raggiungere traguardi prestigiosi. Questo è un anno entusiasmante e pericoloso. Si parla della squadra e dei suoi carpiati, di Mancini e del gioco, nascondendo i tormenti della società che sta facendo di tutto per risalire dal suo debito. Si parla dell’Inter e del suo primato, come se fosse in una situazione normale e invece ha fatto un operazione di straordinario coraggio. Ma se i giocatori non manterranno alta la concentrazione questa stagione può finire in un disastro. L’Inter non ha perso con avversarie più forti. È mancata nel suo male più incurabile degli ultimi anni: la mentalità vincente e dunque l’approccio. 

Non credo tra l’altro che Mancini sia un masochista e sono abbastanza convinto che la scelta di non schierare Brozovic e Ljajic contro la Lazio non sia stata una scelta tattica ma comportamentale. Non approvo però l’amichevole a Doha contro il Paris St Germain il 30 dicembre. Capisco la ragione economica ma è l’unica tra le squadre di serie A che fa una scelta tanto rischiosa. E quando ci si gioca tutto, anche per dei millimetri, la differenza la fanno anche queste decisioni. Ce ne pentiremo?
Amala.
 

Sezione: Editoriale / Data: Lun 28 dicembre 2015 alle 00:00
Autore: Lapo De Carlo / Twitter: @LapoDeCarlo1
vedi letture
Print