"Antonio Conte ha voglia di lavorare, ma prima di tutto ha bisogno di lavorare".
Inizia così "Metodo Conte" di Alessandro Alciato, una panoramica su quello che è Antonio Conte uomo ma soprattutto allenatore. Perché sì, come scrive Alciato, "Conte non è solo un allenatore, ma prima di tutto è un allenatore". Allenatore, mai commissario tecnico, malgrado il periodo in Nazionale quando, non a caso, quel ruolo finì per stargli stretto fino a farlo sentire inadatto. Non certo per demeriti, semmai per quello che forse è il suo più grande pregio e difetto, o semplicemente il suo carattere distintivo: maniacale nei dettagli, ossessionato nella gestione. Tutto o niente, e nel dubbio sceglie quasi sempre il tutto. "Sono arrivato per far capire la differenza che esiste tra vincere e perdere o vincere e pareggiare. Lavoreremo affinché la vittoria diventi una dolce condanna anche per la Nazionale", disse durante la conferenza stampa di presentazione, appena approdato in azzurro; perché per lui il fallimento non è quasi mai ponderato né accettato. Anzi, senza quasi. E quando il tutto non gli è concesso, preferisce scendere dalla nave e andar via, senza mai abbandonare, semplicemente mollare. Che talvolta non significa perdere, ma avere il coraggio di accettare una realtà che non si può cambiare, il che significa vincere ancora. Quantomeno con se stessi. Così è stato con la Juventus, quando ormai qualcosa si era spezzato, quando dopo aver dato tutto voleva ancora per vincere ancora. Per raggiungere quel tutto che ancora oggi la Juventus ricerca e che neppure i campioni plurititolati (che lui non ha mai richiesto) hanno raggiunto. Perché Antonio è fatto così: tutto o niente, bianco o nero, e nella via di mezzo tra tutto o niente ha scelto il niente finendo per scendere dal carro, salutando persino il bianco e il nero insieme che per quasi tutta la vita aveva indossato.
Prima l’azzurro, poi si è preso il nero e in quella che ha definito una sfida (apparentemente una delle tante), ha scelto la più ardua: la sfida del nero-azzurro. Chissà se nel gennaio dello scorso anno, durante quella passeggiata "nelle vicinanze della sede dell’Inter", così definita, aveva ponderato ogni singolo dettaglio di quello che lo aspettava. Conoscendolo l’avrà fatto di certo, ma forse non fino in fondo. Perché come qualcuno sperimentò prima di lui, essere interista non è facile né automatico e certi dettagli non sono visibili agli occhi di chi li guarda da lontano. Lo ha sperimentato in prima persona, sentendo per la prima volta il rumore dei ‘nemici’ che pian piano iniziarono l’escalation di bombardamento mediatico arrivato all’apice con la famosa lettera (e la conseguente 'cattiveria aggiunta') post Inter-Barcellona. Ma questa è un’altra storia, o per meglio dire un altro piccolo dettaglio, ad ora trascurabile. Certo è che nei tanti particolari soppesati prima del sì definitivo pronunciato a Marotta, qualche sfumatura sarà sfuggita ed eccolo lì, sorridente mentre stringe la mano a Zhang con il simbolo dell’FC Internazionale alle sue spalle poco prima di metterlo addosso, ignaro di quello che l’avrebbe aspettato. Mentre pronunciava le parole post sodalizio concretizzato tra lui e la Benamata, parlando di sfida, non poteva certo immaginare che da lì a poco più di sei mesi sarebbe cambiato il mondo e con lui pure sé stesso. Se per il condottiero di Lecce sposare la causa nerazzurra era già un’immensa sfida, a livello sportivo in primis e sentimentale in secundis, quella che sta affrontando da ormai due mesi è senza dubbio la più grande prova che abbia mai affrontato in carriera, quantomeno da allenatore. Questa volta da affrontare ci sono tutti i suoi principi e da combattere il più vero dei suoi rivali: fermarsi.
Antonio Conte ha voglia di lavorare, ma prima di tutto ha bisogno di lavorare. Lo stop delle competizioni, addirittura persino degli allenamenti… E il lavorare, lavorare e ancora lavorare è finito nel gradino più basso delle priorità mondiali. L’emergenza Coronavirus lo ha obbligato a stopparsi e l’uomo dagli 8km macinati in area tecnica è costretto a non vedere i suoi giocatori per settimane e addirittura mesi. Roba impensabile persino ai tempi della Nazionale. Lontano dai suoi ragazzi, lontano dai campi da calcio e nientemeno rinchiuso in casa, lontano dal suo big Rom e costretto a subire le incursioni a gamba tesa provenienti dalla Spagna, da dove più che rubare palla tentano di rubare il suo portento migliore. Ma "nelle difficoltà, solo l’uomo ti permette di superarle, non solo il calciatore", come disse sempre in conferenza stampa di presentazione con l’Italia, e oggi per superare una difficoltà di forza maggiore è costretto a reinventarsi: mister Conte è obbligato a trasformarsi in Antonio uomo, dovendo modificare persino il suo marchio di fabbrica, modificare ma non annullare. Fermo ma solo fisicamente e seppur da casa fa di tutto per muovere quantomeno il pensiero e la strategia. Senza scarpette e cappellino ma pur sempre con la tuta, niente pratica e contatto fisico ma pur sempre vicino ai suoi giocatori (che rivelano: "Conte cerca di starci quanto più vicino possibile").
Il lupo perde il pelo ma non il vizio e seppur a distanza, vai con programmi di allenamenti e nutrizione ben definiti e scaglionati e se a il calcio è costretto a fermarsi, i suoi calciatori sono costretti ad allenarsi. Ma mens sana in corpore sano e viceversa; e se i nerazzurri non fermano le gambe, lui non ferma la mente. Mentre i giocatori sono tutti rientrati a Milano e il ritorno agli allenamenti sembra prefigurarsi all’orizzonte, da vincere ci sono altre 12 partite (soltanto di Serie A), dopo due sconfitte consecutive contro Juventus e Lazio, le due rivali nella corsa scudetto e ad oggi rispettivamente a +9 e +8 (ma con una partita in più). Ma soprattutto da vincere ci sono altre grandi sfide: da un lato far ripartire il presente, dall’altro preservare il futuro. Rivitalizzare un gruppo intero andato in black out per troppo tempo trovando un equilibrio armonioso che possa tener conto del nuovo gioiellino Eriksen da incastonare al centro del progetto tattico facendo anche affidamento ai finalmente recuperati Sensi e Sanchez. Il tutto per tornare a fare ciò che meglio predica: premere l’acceleratore al massimo così da avviare questa ripartenza al massimo dei giri. E allora vai di rewind e poi di play.
Rewind per tornare a settembre, quando del Coronavirus non c’era neanche la traccia e quando la migliore Inter con il brio della fase iniziale faceva faville; play con il valore aggiuntivo che i vari Young, Moses ed Eriksen possono e devono dare. Finire la stagione provando a raggiungere quanti più 'goal' possibili (goal all’inglese), cosicché da incassare introiti (che non guastano mai) e prestigio, necessario ad evitare di perdere pezzi fondamentali e attrarne degli altri così da allestire una rosa che a settembre più di oggi sarà a sua immagine e somiglianza (con Vidal pallino fisso e più vicino di gennaio). Finire al meglio la stagione per mettersi alle spalle il più recente passato, concludendo un presente che fa guadagnare forza per il futuro, potendo vantare innanzitutto una morsa più stretta attorno a un altro rarissimo gioiellino, quello lì davanti con il diez sulle spalle, sempre più ambito da altri club ma sempre più caro a Conte.
E allora oggi come quel 31 maggio, nuove sfide all’orizzonte si prefigurano, e oggi come allora l’Inter necessita del suo condottiero, quello mai domo e mai seduto. Perché lui, come scrive Alciato, in quel mondo in cui "le poltrone sono sacre, la panchina la profana" e mai come oggi vuole stare in piedi come se quella panchina fosse cosparsa di spine. Iwatch al braccio e giù a contare i km in area tecnica, perché dopo tanto sedere sta per tornare il tempo di sbracciarsi saltando, e se questo stop è servito a fargli vincere la sua battaglia personale, quella con sé stesso, è ora di tornare a pensare come vincere gli altri. Con una nuova pelle, più forte dopo averla rinnovata esattamente come fanno i biscioni. "La competizione è battaglia. È 'morte tua, vita mia'". E allora ridate la vita al condottiero di Lecce, perché Antonio Conte ha voglia di lavorare, ma prima di tutto ha bisogno di lavorare.
Autore: Egle Patanè / Twitter: @eglevicious23
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