L’involuzione tecnica, tattica, fisica e chi più ne ha più ne metta che ha colpito i nostri (si fa per dire) eroi pallonari sembra non avere fine. Abbiamo chiuso una settimana calcisticamente parlando da dimenticare. Non perché si sia pareggiata col Carpi una partita ai limiti della decenza o perché si sia andati a Torino in gita di piacere rimediando tre schiaffoni con una blanda resistenza. No. È il modo in cui si scende sul terreno di gioco che lascia stupefatti, increduli, attoniti. L’atteggiamento con il quale si cominciano le partite. Che, purtroppo, spesso è lo stesso con cui si finiscono. Punti gettati al vento tra il minuto 89 ed il minuto 94. Ah, già, colpa di Mancini.
Qui oscilliamo tra il male ed il molto male. Mi ripeto, il problema non sta nel manico. Qualche giorno fa sono stato alla presentazione della biografia di Gianni Rivera. Il quale, chiacchierando e raccontando aneddoti sulla sua carriera alla voce Nereo Rocco (giù il cappello, grandissimo) ha svelato un particolare che, dal mio punto di vista, dice tutto riguardo al rapporto tra allenatore e calciatori. Rocco, raccontava Rivera, dava le maglie e spiegava ad ognuno di noi come doveva muoversi sul prato verde; o, almeno, iniziava a farlo. Perché poi si bloccava e diceva: tanto in campo ci andate voi, cosa sto qui a spiegare cosa?
Ora, indipendentemente da chi è il nocchiero della nave, se i marinai passano il tempo a pensare ai fatti loro si finisce per affondare; perché mi risulta difficile poter soltanto lontanamente immaginare che un qualunque tecnico mandi in campo i suoi calciatori dicendo loro di passeggiare, cercare quadrifogli o fiorellini di campo, svagarsi, guardarsi intorno ed ammirare l’imponenza del Meazza o la bellezza del nuovo stadio bianconero. Intendiamoci, qualunque tecnico. Dal migliore al peggiore.
Su quel rettangolo verde ci vanno i giocatori. Che sono professionisti. Come tali guadagnano cifre importanti, giustamente aggiungo; offrono spettacolo e portano spettatori paganti. Come tali non devono aver bisogno di un tutor che spieghi loro che le partite finiscono quando arbitro fischia, soleva ripetere Boskov, e non quando lo decidono perché magari in superiorità numerica ed in vantaggio contro una neo promossa destinata a lottare per non retrocedere fino all’ultimo secondo dell’ultima giornata. Perché sì, maledizione, esistono differenze sostanziali tra sconfitte e non vittorie. Sul come maturano, intendo.
Opinione del tutto personale per gran parte del girono d’andata le vittorie, seppur striminzite, erano frutto di una comune unità di intenti. Nessuno si atteggiava a superstar, ciascuno era pronto ad aiutare il compagno di squadra in difficoltà, ognuno correva per se stesso e per gli altri. L’Inter era corta, a tratti cortissima, e si muoveva con la stessa sinuosità di un serpente, in piena coerenza col Biscione che da sempre ne è l’emblema. Massima attenzione e ripartenze velocissime. Rannicchiati ad attendere e pronti a colpire con rapidità. Spesso letale.
Poi, improvvisamente, la luce si è spenta; quasi come se la squadra avesse raggiunto chissà quali traguardi. E non il nulla cosmico; perché non ricordo che essere in testa a dicembre abbia mai significato vincere qualcosa. A ciò va aggiunto un errore che, sempre opinione personale si intende, poteva e doveva essere evitato; il ritiro a Dubai, condito da una inutile esibizione col PSG. Sì, ma così si rafforzano i rapporti con il club transalpino, raccontano quelli bene informati. Sì, ma a me non risulta un affare uno fatto con loro, chioserei. Anche perché attualmente, col problema debiti da sanare, manco le riserve dei parigini potremmo acquistare. Né mi sembra che la dirigenza di Nasser Al-Khelaifi si sia mostrata alquanto disponibile nei nostri confronti. E, per finire, ‘sta storia di andare nei paesi arabi a dicembre/gennaio mi sovviene che storicamente abbia portato più danni che altro alle squadre italiane. Potere del marketing, sconosciuto a noi mortali.
Mancini dice che i test fisici dimostrano come la squadra corra il 40% in più rispetto a settembre. Sarà come dice lei Roberto, a me sembrano dei gatti di marmo con zero reattività, sempre in ritardo e spesso secondi sul pallone. Insomma, mi chiedo, ma quell’agonismo, quella cattiveria sportiva, quella grinta che ci aveva contraddistinti per quattro mesi che fine hanno fatto? Mancando di tecnica, questa rosa deve fare della fisicità la propria arma vincente. Se sparisce anche questa si rischia di collezionare brutte figure una dopo l’altra. Come del resto, inutile nascondercelo, sta accadendo.
Questa svogliatezza, questo senso di noncuranza che traspare dalle non lusinghiere prestazioni nerazzurre abbisogna di un rapido, rapidissimo cambio di rotta. A molti di loro andrebbe ricordato che quando scendono in campo non lo fanno per se stessi. A molti di loro andrebbe ricordato che rappresentano non i propri interessi ma l’amore di un popolo che li segue, che macina chilometri e chilometri per andare a vederli, a tifare, a cantare a squarciagola l’amore per questi colori. Che non sono loro. Sono dei tifosi. Loro passeranno, i colori resteranno per sempre. E dai giocatori un minimo si pretende: rispetto. Quella dell’Inter è una maglia gloriosa, che appartiene di diritto alla storia del calcio. Portarla sulle spalle non è un lavoro, è un onore. Se non si capisce questo allora meglio andarsene. E se non si vuole farlo perché ben remunerati beh, che ci pensi la Società ad agire di conseguenza. Retorica? Sarà, ma io la penso così.
Il problema vero è che dopo gli Zanetti, i Deki, i Cambiasso i Samuel e via dicendo nessuno attualmente è in grado di capire cosa significhi vestire il nerazzurro.
Bene, è ora che qualcuno glielo spieghi.
I tifosi criticano, i tifosi sono i primi a cambiare opinione; quale occasione più ghiotta della stracittadina? Io mi aspetto cuore, corsa e palle. E spero ardentemente di non essere disilluso.
Amatela. Sempre e comunque!
Buona domenica a Voi.
Autore: Gabriele Borzillo / Twitter: @GBorzillo
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