"In primo luogo, bisogna trovare sempre l'equilibrio, con giocatori che te lo danno difensivamente e offensivamente. Siamo arrivati fin qui senza Eriksen, non dobbiamo pensare che un giocatore possa cambiare una squadra. Lo stiamo inserendo nel migliore dei modi, ma dobbiamo continuare a lavorare senza pensare che questo o quell'altro possa cambiare la situazione".
Enunciando il manifesto programmatico della sua idea di calcio, Antonio Conte ha risposto così a chi gli chiedeva della possibilità di uno nuovo scenario di gioco con l'inserimento del danese nello scacchiere tattico dell'Inter. Finora, infatti, al netto dei tempi di adattamento ai nuovi compagni e a un campionato diverso, l'ex Tottenham non viene ancora considerato come prima opzione per due semplici ragioni: fisiche e tattiche. La prima porta a Mauricio Pochettino e José Mourinho, che lo hanno gestito – anche per ragioni di Stato legate al suo contratto in scadenza – dandogli meno minuti di quelli che avrebbe meritato un titolarissimo degli Spurs che nella passata stagione sono andati a una finale di Champions dallo scrivere la storia. La seconda attiene esclusivamente alla serie di concetti di campo che hanno fatto le fortune del tecnico pugliese negli anni: dalla Juve al Chelsea, passando per l'esperienza in Nazionale, a un certo punto a ogni squadra è stato aggiunto il complemento di specificazione 'di Conte', a testimonianza del fatto che i principi sono più importanti di qualsiasi campione possa far parte della rosa. E a pensarci bene, salvo rare eccezioni, Conte si è sempre circondato di giocatori più funzionali che talentuosi, tanto che è l'allenatore che nel panorama mondiale viene riconosciuto come quello che riesce a far sovraperformare elementi ben lontani da picchi da Pallone d'Oro o addirittura reduci da annate al di sotto dei loro standard. Una virtù nella quale lo stesso Conte si crogiola, soprattutto quando la critica lo avvicina a un santo quando riesce a compiere certi miracoli sportivi. In carriera, poi, Conte si è costruito anche un personaggio in questo senso: da Bari in su, persino alla Juventus, che nel 2011 non era certo il club che poteva permettersi di acquistare Cristiano Ronaldo dal Real Madrid, il tecnico leccese ha sempre scelto di fare l'outsider, lo sfavorito di lusso della vigilia che però ha quel potenziale inespresso (grazie al mercato e al contesto del campionato ai quali sono iscritti) che può valere la vittoria. Il famoso 1% di possibilità di mettere la mani su in trofeo di cui parlava anche nella sua prima conferenza da tecnico nerazzurri. I risultati, in campo nazionale, stanno dando ragione al suo metodo: quattro tornei (tre Serie A di fila più una Premier League) vinti in cinque anni sono il biglietto da visita migliore per definirlo il re dei campionati. Un biglietto da visita che sul retro ha le sue controindicazioni: allergia all'Europa e ai giocatori che vanno fuori dagli schemi. Peraltro due situazioni perfettamente correlate, visto che in campo continentale – laddove a parità di organizzazione – spesso decidono i dettagli che portano le grandi firme, quelle che al giorno d'oggi si chiamano top player.
E qui, dopo una lunga divagazione, torniamo a Eriksen: la sua collocazione al centro progetto nerazzurro sembra l'approdo più scontato sin dal suo sbarco a Milano lo scorso 28 gennaio. Da quel giorno sono passate praticamente solo tre settimane, pur dense di impegni per colpa del calendario, e trarre conclusioni su come Conte intenderà utilizzare il 28enne di Middelfart è quantomeno frettoloso. Conte, a differenza di quanto si sia portati a credere è tutt'altro che un integralista a livello tattico: è ossessionato dagli schemi come tutti i grandi, tanto che Pirlo, forse il miglior giocatore che ha mai allenato in carriera, lo ha definito 'genio'. Sicuramente un talento innato Conte ce l'ha: in panchina è camaleontico. Il 4-2-4 che fece innamorare Bari lo adottò all'inizio anche alla Juve, prima di riscrivere la sua filosofia per un certo Arturo Vidal che lo convinse a passare al 4-3-3. In quello stesso anno, snodo cruciale per la sua carriera ai massimi livelli, nacque anche il 3-5-2 per far fronte all'assenza di Marchisio al San Paolo e per opporsi a specchio all'allora Napoli di Mazzari. La difesa a 3, poi marchio di fabbrica della Juve dei record, fu la sintesi perfetta tra il 4-2-4 quasi utopostico e il 4-3-3 più aderente alle necessità e agli avversari. Per Conte sarà la soluzione per molto tempo, non senza ripensamenti temporanei: nella sua avventura inglese, infatti, ripartì dalla linea difensiva a quattro, salvo ritornare sui suoi passi negli ultimi minuti di un 3-0 pesantissimo incassato contro l'Arsenal. Risultato? Corona d'Inghilterra e conseguente lancio di una moda nel calcio che da tradizionalista è diventato quello più di tendenza ai giorni d'oggi: in quel campionato, molte squadre, compreso il City del maestro Pep Guardiola, copiarono il marchio di fabbrica di Conte. Una traccia che rimane sempre attuale, visto che nell'ultimo Mondiale, la Nazionale dei Tre Leoni guidata da Southgate ha giocato tutte le partite con il trio difensivo. Ora, proprio oltremanica, arriva Eriksen, la chiave tattica che col tempo aggiornerà alcuni dogmi di Conte. Il calcio è soprattutto dei giocatori e Conte lo sa, essendo stato protagonista prima in campo che in panchina. L'ansia dei media che parlano di 'caso Eriksen', unito agli ultimi due ko, stanno mettendo in secondo piano il grande lavoro fatto fin qui da Conte, che ora deve evolvere il suo sistema per tornare a far parlare di sé. Perché anche quando Eriksen entrerà in pianta stabile nell'undici titolare, sarà comunque l'Inter di Conte.
Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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