E ora, le meritate vacanze e arrivederci al 3 luglio. Dopo dei giorni abbastanza concitati, sicuramente tra i più importanti della sua carriera, avvenuta la presentazione ufficiale Luciano Spalletti si gode finalmente un po’ di relax in attesa di prendere definitivamente le redini della sua nuova creatura e gettarsi anima e corpo nell’avventura nerazzurra. Nel frattempo, restano ancora in mente i passaggi della sua conferenza stampa di presentazione, di una durata usuale per quelli che sono i suoi standard dialettici ma dalla lunghezza pressoché inedita visti i precedenti degli ultimi anni ad Appiano. Conferenza stampa dove, tra passaggi quasi filosofici e simpatici appunti in merito a certe domande, Spalletti ha voluto ribadire i capisaldi del suo nuovo pensiero interista.

È piaciuto ai più l’uso continuo, quasi sistematico, della prima persona plurale, quel “noi” col quale Spalletti ha voluto far capire di essere già inglobato nel nuovo cosmo auspicando di riportare l’Inter vicina a quella che è la sua storia e il suo blasone. Ha quasi sorpreso la citazione di una delle celeberrime frasi di Helenio Herrera, quelle dei cartelloni motivazionali coi quali il Mago era solito tappezzare i muri degli spogliatoi per spronare i suoi uomini a dare il massimo perché ‘chi non dà tutto non dà niente’, quasi a volerne invocarne lo spirito. E ha convinto tutti quell’appellarsi costante al senso di appartenenza da parte dei giocatori, al vivere con il suo stesso entusiasmo quest’avventura, a capire qual è il significato e il peso della maglia che si indossa, primo passo necessario e probabilmente non sufficiente per cominciare a ottenere risultati importanti. Parole ad effetto, considerando che poche ore dopo, sull’altra sponda del Naviglio si consumava un duro colpo ad un senso di appartenenza tanto strombazzato e poi sacrificato in nome di qualche milione di euro in più con tanti saluti al bacio alla maglia (anche se c’è da dire di episodi simili la storia recente nerazzurra non fa difetto).

Ma c’è forse un passaggio delle parole di Spalletti che non è stato evidenziato a dovere e che invece merita un approfondimento particolare. Appena messosi comodo sulla poltrona della sala conferenze di Appiano Gentile, il tecnico di Certaldo ha voluto rivolgere le prime parole al suo collega Stefano Vecchi e all’Inter Primavera, che domenica scorsa, superando la Fiorentina nella finale di Reggio Emilia, si è cucita dopo cinque anni il tricolore dei ragazzi sulle maglie. Una vittoria importante, l’ideale chiusura del cerchio della prima fase dell’esperienza del tecnico bergamasco in nerazzurro al termine di un’annata per certi versi indimenticabile per lui, chiamato per due volte al capezzale della prima squadra nel tentativo di far attraccare in porto una barca devastata dalla furia degli eventi. Ma mentre in questi anni l’Inter dei grandi collezionava delusioni su delusioni, le squadre giovanili hanno degnamente dato lustro all’onore interista inanellando trionfi su trionfi, con lo stesso Vecchi capace di centrare un triplete sui generis alzando al cielo un trofeo per ogni stagione: il Viareggio nel 2015, la Coppa Italia 2016 al termine di un’epica doppia sfida contro la Juventus, fino all’apogeo di quest’anno.

Quelle di Luciano Spalletti potrebbero sembrare semplici parole retoriche, complimenti di circostanza. Ma se c’è un aspetto che non sembra appartenergli è quello della banalità. E allora, ecco la frase a effetto che nessuno si aspetta: “Si dice che i ragazzi devono guardare i più grandi, ma io penso che dovremo andare noi a vedere loro che sono il nostro onore. Dobbiamo essere noi a copiare loro”, concetto spiegato ai tifosi nell’aperitivo pre-conferenza con le domande rivolte dal mondo social. Parole indubbiamente importanti, che vanno al di là del risultato ottenuto. Parole che valgono un riconoscimento pesante degli sforzi compiuti da questi ragazzi, della loro capacità di saper sudare e lottare tutti insieme nel nome di quel ‘volersi bene’ che non va smarrito ora che hanno raggiunto il gradino più alto e si apprestano a varcare anche i confini europei con la partecipazione alla Youth League e soprattutto nel nome della maglia da onorare, cosa che ai grandi negli ultimi tempi è sfuggita troppo presto.

Il nuovo allenatore della prima squadra che debutta rendendo onore a questi ragazzi vale quanto e forse anche di più di una medaglia, di una coppa, di un premio individuale. È la vittoria di un progetto che negli anni ha saputo confermare la sua validità, diretto da un maestro sapiente come Roberto Samaden e che ha visto in Pierluigi Casiraghi un grande demiurgo, onorato a dovere anche da Steven Zhang che ha celebrato i trofei di Primavera e Berretti e che insieme al padre Jindong progetta già un piano di ulteriore crescita che passerà da un nuovo centro sportivo più grande e adatto alle ambizioni.

E in attesa di capire se e quando i nuovi talenti espressi, dalla certezza Andrea Pinamonti alle grandi speranze come Xian Emmers, Zinho Vanheusden, Alessandro Mattioli, Michele Di Gregorio, Andrew Gravillon e chi più ne ha più ne metta, riusciranno a dire la loro anche ai piani alti, è assodato che anche questi ragazzi sono già parte della voglia dell’Inter di tornare grande. Per meglio dire, sono già “parte di noi”, come recita l’accattivante slogan della campagna abbonamenti lanciata ieri. E a noi non resta che volere loro tutto il bene possibile.

Sezione: Editoriale / Data: Sab 17 giugno 2017 alle 00:00
Autore: Christian Liotta / Twitter: @ChriLiotta396A
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