Dopo la vittoria corsara della sua Inter al San Paolo, ad Antonio Conte è riuscito il miglior contropiede possibile, con il quale ha spiazzato analisti televisivi e giornalisti ancorati a un vocabolario del calcio che non si è mai aggiornato. Naturale, in queste condizioni, avere due punti di vista differenti di fronte alla medesima partita quando non si condividono i significati attribuiti ai termini con i quali si vuole discettare di pallone.
Il concetto di contropiede, che va a braccetto con quello di difesa imperforabile, soprattutto nelle imprese che hanno attraversato le storia della Nazionale azzurra, è sempre stato glorificato e ha mantenuto in Italia la sua nobiltà anche e nonostante la rivoluzione di Arrigo Sacchi. Gianni Brera, cantore massimo di questo stile di gioco, ha sostenuto fino all'ultima goccia di inchiostro versata nella sua carriera di giornalista che nel dna del calciatore nostrano fosse impresso un codice specifico dal nome 'catenaccio'. Addirittura chiamandolo 'santo', come se il marchio lo avesse apposto direttamente la Dea Eupalla.
E' di questo fardello pesante della tradizione tricolore che Conte ha voluto liberarsi lunedì sera davanti ai microfoni di Sky Sport, quando Fabio Capello lo ha accusato di fare un gioco speculativo come molti dei suoi illustri predecessori. Il tecnico pugliese, in soldoni, impazzisce all'idea che la sua squadra, come tutte quelle allenate finora in carriera, venga ricordata come una formazione che si abbassa nella sua metà campo, per poi cogliere di sorpresa gli avversari non appena entra in possesso palla. Il misunderstanding tra due guru della panchina - uno in piena attività, l'altro in pensione - è una questione che attiene esclusivamente ai tempi e agli spazi del rettangolo verde in cui imporre certe idee di gioco. Per Conte è inconcepibile che ci sia qualcuno nel mondo che sia portato a credere che i suoi undici siano spesso e volentieri in posizione d'attesa, o addirittura in trincea, aspettando la prima mossa del nemico per poi colpirli.
Per fortuna, nel 2020 ci sono dei numeri oggettivi per poter contestare questo assioma: parlando di pressing, perché è quello il termine attorno al quale si misura la forza di una determinata squadra, l'Inter è la quarta in Italia per numero di recuperi offensivi, il che suggerisce che è tra le top in Serie A che difende con più metri alle spalle (dati l'Ultimo Uomo). Non contropiede, dunque, ma al massimo transizioni offensive che possono innescarsi in due modi, comunque accomunati dal coraggio di portare il proprio baricentro dentro la metà campo avversaria: con un recupero palla aggressivo o inducendo un errore dell'avversario. Questa, però, è solo una parte della filosofia contiana, quella che si attua nella fase di non possesso palla; l'altra, il palleggio dal basso per crearsi le situazioni in cui mandare a memoria movimenti e schemi (emblematici i 60' di Barcellona), è troppo moderna e anti-storica nel belpaese per trovare consensi che invece diventano plebiscitari appena si varca il confine. La contraddizione è resa evidente da un fattore che in Italia, comunque la si guardi, è preponderante: il risultato. Figli di una tradizione vincente fatta di due Mondiali più un'Olimpiade vinti tra '34 e '38, gli italiani nel calcio sono stati perseguitati dall'obbligo di imporsi sempre come i migliori, anche quando la realtà suggeriva il contrario, e hanno aderito ben volentieri a questa corrente di pensiero.
Dottrina impraticabile al giorno d'oggi secondo Antonio Conte, che allo stesso tempo si è ben guardato dall'iscriversi alla scuola in cui si profetizza che l'unica via per vincere è il dominio del pallone. Ecco perché i nerazzurri, in Serie A, oltre ad arrivare poche volte al tiro da situazioni di contropiede, hanno il 52,6 per cento di possesso palla, un dato tendenzialmente basso per una squadra prima in classifica, ma che allo stesso tempo spiega l'efficacia del metodo con cui Antonio spiega ai suoi come arrivare al dunque nel minor tempo possibile. Insomma, per Conte c'è una regola aurea che può adattarsi a ogni situazione e avversario: non è importante per quanto tempo hai la palla tra i piedi, ma ciò che ne fai nel tempo in cui ne sei in possesso. Conte non è un contropiedista convinto né un filosofo del tiqui-taca, anche se la critica italiana, da sempre manichea, ama appiccicare le etichette (le semplificazioni le fanno anche gli addetti ai lavori, leggi Max Allegri e il corto muso). Sicuramente Conte è un signore che sa fare rendere i suoi giocatori sopra i loro standard, spesso portando a casa dei titoli. Un talento riconosciuto da amici e nemici: lo stesso Capello si è levato simbolicamente il cappello dopo essersi confrontato con lui su una questione che li ha visti su posizioni opposte. E' un tema antico quello dei modi in cui si arriva a una vittoria, ed è tornato finalmente d'attualità in casa Inter. Prima dell'arrivo di Conte si parlava giusto di piazzamento, mai di vittoria: oggi invece si parla delle modalità in cui riesce a vincere. Un cambiamento di prospettiva non indifferente, di una portata pari a quella con cui Conte vuole dare la giusta forma al termine 'contropiede' nella patria che lo guarda ancora con l'incanto del neologismo.
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Autore: Mattia Zangari / Twitter: @mattia_zangari
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