Caro Giacinto,
scusa se ti chiamo per nome, ma per noi – noi interisti – sei stato e sarai sempre uno di famiglia. Purtroppo, e questo è un cruccio personale, non sono mai riuscito a vederti giocare dal vivo, ma è come se l'avessi fatto. Sono poco più che trentenne, però sono a conoscenza di tutto ciò che ti riguarda, e non solo per essermi documentato come ogni buon giornalista dovrebbe fare. Di te conosco tutto perché, prima di me, erano interisti mio padre e, prima ancora, mio nonno. Sono stati loro a raccontarmi i successi della Grande Inter e a tramandarmi l'amore per questa squadra incredibilmente unica. Unica come te, Giacinto. E la tua assenza continua a pesarmi proprio come se avessi perso un amico, un fratello. Anzi, un nonno.

Nel mio immaginario di ragazzino che cominciava ad affacciarsi al calcio, la tua figura mi sembrava enorme, come quando a scuola ti raccontano di Giulio Cesare o Carlo Magno. Ricordo che mio nonno – erano i primi anni '80 – tornava stremato dal lavoro di campagna, si sedeva sulla sdraio e accendeva il piccolo televisore in bianco e nero per vedere qualche partita. Io, al contrario, ancora preferivo i cartoni animati e cambiavo 'stazione', costringendolo ad alzarsi (non c'erano telecomandi!) e a sintonizzarsi nuovamente sul canale che dava l'incontro. E mi raccontava di quando, per vedere le partite, si riunivano in paese poiché non tutti avevano una tv e bisognava cercare qualcuno che l'avesse. Mi raccontava di Italia-Germania 4-3, del Mundial '70 e, soprattutto, di un certo Giacinto Facchetti, idolo e bandiera della Grande Inter.

Sarà anche per questo che oggi tifo Inter. Sarà anche per questo che, quando sento tirarti in ballo in controversie fuori dal mondo, non riesco ad essere così corretto come lo eri tu, in campo e fuori. Vorrei tanto avere la tua compostezza e la tua eleganza, ma non ci riesco proprio. Oggi sono passati cinque anni esatti da quel maledetto 4 settembre 2006, quando un male terribile ti ha portato via per sempre dalla tua famiglia.

In questo periodo sei stato tirato dentro in quello sporco affare chiamato Calciopoli, dopo che proprio tu, in prima persona, avevi cercato di combattere quel sistema corrotto che era (è?) il calcio italiano. Vedere il tuo nome accostato a quello di tanti farabutti non è un fatto che può essere sottovalutato e tutti noi dovremmo chiederci se vale ancora la pena seguire questo sport, che ormai di sport ha ben poco. E' la passione che ci frega, caro Giacinto, quella stessa passione che anche tu hai contribuito ad alimentare e ad accrescere. Quella stessa passione che fa restare il calcio più forte dei vari Palazzi e Moggi di turno.

Se il calcio ancora vive, lo deve a uomini come te. Uomini che hanno onorato il vero spirito di questo sport e che lo hanno reso immortale.

Ciao caro Cipe, mi manchi. 

Sezione: Editoriale / Data: Dom 04 settembre 2011 alle 00:01
Autore: Alessandro Cavasinni
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