Oggi anche il Corriere dello Sport ricorda Mario Corso, scomparso ieri all'età di 78 anni. Ecco il ricordo del quotidiano romano a firma di Franco Recanatesi: "Fra coloro che hanno partecipato a fare del calcio un’arte c’è sicuramente Mariolino Corso. Lo dico non solo io che - ahimè - l’ho visto giocare, ma scienziati del pallone, poeti, romanzieri che ne hanno cantato le gesta. Corso ha ispirato persino il titolo di un libro firmato da Edmondo Berselli, “Il più mancino dei tiri”, mischiando calciatori, politici, filosofi nell’azione perfetta tratta dal tripartito di Hegel: tesi (c’è una storia), antitesi (non ce n’è alcuna), sintesi (possiamo sempre inventarcela). Di tutto ciò il gol di Corso, il suo calcio, il suo talento scattano un’immagine perfetta.
La scomparsa del giocatore interista squarcia il velo su un calcio in bianco e nero che all’inizio degli anni 60 regala ai tifosi brividi domenicali attraverso “Tutto il calcio minuto per minuto”, e che si arrovella sulle tattiche scoprendo che il “catenaccio” è quella che più l’avvicina alla gloria. Rocco docet, finché dall’Argentina, via Spagna, arriva un personaggio pittoresco che appende cartelli motivazionali nello spogliatoio e corregge il modulo Rocco con qualche svolazzo in corsivo. Può farlo poiché la sua Inter possiede una talentuosa forza propulsiva (Mazzola, Suarez, Corso), davanti a un centrocampo di combattenti irriducibili (Tagnin, Bedin, Domenghini) e una difesa granitica attorno a mastro Picchi (Burgnich, Facchetti, Guarneri). HH vuole più ritmo rispetto al rivale milanista e l’inserimento a sorpresa dei tre punteros e dei centrocampisti.
Certo, una faticaccia, che Mariolino non troppo gradiva. Era nato per dipingere, non per scolpire col martello. Sapeva far viaggiare la palla senza dover stancare le gambe. Gianni Brera lo ribattezzò “il participio passato del verbo correre”. Così come aveva classificato l’“abatino” Rivera.
Per questo Herrera non lo amava. Chiese più volte la sua cessione che Angelo Moratti sempre rifiutò: la sua morbidezza nel servire i compagni, i suoi dribbling secchi, quel sinistro “a foglia morta” che faceva cadere il pallone sotto la traversa lo incantavano. “Mandrake”, lo ribattezzò. E i media subito di quel nomignolo si appropriarono".
"Corso non aveva un carattere facile, apparteneva ad una generazione di ventenni/trentenni nata durante o subito dopo la guerra, cresciuti in una società clericale e classista. Negli anni del boom economico, delle conquiste e della ricerca dei bisogni e successivamente della ribellione studentesca, i giovani divennero un soggetto nuovo e autonomo che faceva fatica a farsi accettare. Anche nel mondo esclusivo del calcio si agitavano ragazzi come Mario Corso che non vivevano di solo pallone. Egli aveva e manifestava le proprie idee che allenatori e compagni trascuravano o a volte contrastavano. Era spinoso, divisivo. Forse inasprito anche da due gravissime fratture della tibia che lo costrinsero ad abbandonare il terreno di gioco all’età di 32 anni, dopo 502 partite, 94 gol, quattro scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali con la maglia dell’Inter, una coda grigia con quella del Genoa e poco feeling con quella azzurra della Nazionale. Litigò anche con Edmondo Fabbri che lo escluse dai Mondiali del 1966 e dagli Europei del 1968. 23 presenze e 4 reti in dieci anni, un insulto per un giocatore della sua qualità. Come ridurre un Sassicaia a Tavernello.
Eppure Corso ha segnato qualcosa di nuovo nel calcio italiano, il numero 11 che non fa solo l’ala ma interpreta quel ruolo che verrà definito “trequartista” illuminando la scena. “Siamo stati bravi ma ci ha battuto il piede sinistro di Dio”, commentò nel 1961 Gyula Mandi, allenatore israeliano dopo la partita con l’Italia dell’ottobre 1961.
Riconoscimenti dell’Italia pallonara, pochi e inadeguati, forse perché l’Italia e il mondo intero erano distratti da una catena eventi epocali: dal primo uomo nello spazio al primo uomo sulla luna, dall’assassinio di Kennedy alla strage di piazza Fontana che segnò l’inizio della strategia della tensione. Il muro di Berlino. Mutarono i riferimenti politici, dal centrismo al centro sinistra. Mutò il costume. Il frigo e poi la tv in ogni casa. La macchina a tutti i costi. Minigonne o abiti a trapezio come quelli indossati da Jaqueline Kennedy, pantaloni a zampa d’elefante e capelli lunghi come i Beatles. Battisti, Mina, Patty Pravo, Morandi che ancora oggi figurano nelle high. Il cinema era lo specchio e il compendio di quei tempi: “Arancia meccanica” e “Il laureato”, i giovani registi della New Hollywood alla ribalta: Kubrick, Nichols, Coppola, Scorsese, Spielberg; i primi vagiti della commedia all’italiana di Monicelli e Comencini, Sordi e Gassman. Il calcio era lo svago che seguiva questa epocale rivoluzione. Interpreti vistosi come George Best, nominato quinto Beatle perché vestiva e si acconciava come loro (“ho speso un sacco di soldi per donne e champagne, il resto li ho sciupati”), più riservati come Mario Corso, mai visto né al Camparino di piazza del Duomo né alle serate del Derby con Jannacci e Beppe Viola. Forse non si trovava benissimo dentro un cambiamento così prepotente e chiassoso, dentro la lunga stagione più sconvolgente del secolo scorso. O forse il contrario: quel calcio così indifferente al trauma collettivo mortificava la sua voglia di capire, di partecipare, di creare. Non solo giocando col suo magico piede sinistro e i calzettoni arrotolati al polpaccio come il suo mito Omar Sivori. Già da allenatore la fantasia e la creatività gli parvero soffocate.
Quel mondo irriverente di oltre mezzo secolo fa, o quel che ne rimane, gli dedicherà appena un cenno di saluto".
Autore: Alessandro Cavasinni / Twitter: @Alex_Cavasinni
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