Serata amara al Meazza: il Barcellona vince 2-1 e l'Inter saluta la Champions League. Conscia d'aver dato il meglio di sé, ma anche di non essere riuscita ad oltrepassare l'ostacolo. La delusione è tanta, ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza. Del proprio percorso, del preoccupante presente e anche della qualità dell'organico. Il cammino europeo s'interrompe sul più bello: con lo stesso risultato, infatti, il Borussia Dortmund trionfa in casa contro lo Slavia Praga. Ed è finita. Ora tocca pensare ad un campionato da vincere, ma anche a un'Europa League tutta da scrivere (qualche tifoso nostalgico spera in una vendetta postuma sul Celtic in finale) e, soprattutto, a tirarsi su di morale. Analizzare i motivi per cui il turno non è stato passato, del resto, è l'unica ricetta per migliorarsi. E dall'incontro di San Siro è emerso, platealmente, che alcuni singoli non siano all'altezza di una ribalta così luccicante. Occorre riflettere, per poi rimediare.
"Nel calcio bisogna buttarla dentro. Se non lo fai, diventa complicato. Il cinismo ci è mancato: se avessimo capitalizzato le occasioni, avremmo avuto accesso agli ottavi". Antonio Conte non avrebbe potuto commentare la sfida in maniera migliore. La mancanza di freddezza sotto porta, in effetti, è stata la principale causa dell'uscita dei nerazzurri dal torneo. Il principale responsabile è Romelu Lukaku: autore, sì, del provvisorio 1-1 (un tiro deviato, con Neto che si allunga ma non arriva sul pallone) ma anche impreciso in ben tre circostanze più che favorevoli. Per spiegarla in termini più semplicistici, il belga si mangia tre gol da solo davanti al portiere. Un errore più grave dell'altro. Anche diversi altri compagni di squadra finiscono sul banco degli imputati: tanto impegno, ma poche iniziative. Il che fa riflettere sul valore effettivo dell'organico: quanti membri della rosa nerazzurra sarebbero all'altezza di disputare un ottavo di Champions? Cinque dita, può darsi, bastano per contare e dare una risposta.
Chi non stecca, anzi, finisce per deliziare il pubblico meneghino è Lautaro Martinez, autore della sua migliore prestazione - fin qui - con la camiseta negrazul addosso: sguscia via agli avversari come il miglior Sergio Aguero, si destreggia palla al piede seguendo le orme di Luis Suarez, dispensa numeri da circo alla Zlatan Ibrahimovic; doti da miscelare con una quantità industriale di contrasti vinti e un'intelligenza tattica fuori dalla norma. Gli manca solo il gol: ci prova con un sinistro che fa da rasoio al palo, ma si dispera - come il suo mister - tra il boato illusorio di San Siro. I giocatori del Barça si rendono conto che il numero dieci interista ci sa fare (l'ha notato, pare, anche la loro dirigenza), tant'è che quando entra in possesso del pallone lo placcano, impedendogli (quando va bene) la giocata, oppure limitandone il raggio di straripo. Icona di un calcio gladiatorio, Lautaro si fa carico della squadra con personalità: grinta, agonismo, carattere, intensità, ritmo, forza, volontà, ma anche tanta qualità. È un astro nascente del calcio mondiale e, se continua così, per i sostenitori del Biscione ci sarà da sorridere più spesso. Peccato, però, che un solo uomo non basti a determinare il successo di un'intera squadra (a meno che non ti trovi in Messico e non corra l'anno 1986): l'Inter esce dalla Champions, con il Toro che - insieme a davvero pochi altri - avrebbe meritato d'inseguire il sogno Istanbul. Perché, diciamolo, cinque undicesimi (o giù di lì) di squadra sarebbe all'altezza di una semifinale; gli altri fanno quel che possono. Quel che non fanno, non possono proprio.
C'è chi si aspettava un Barcellona in ciabatte, ma il pre-gara per i catalani è molto accademico. I calciatori, nel tunnel dello stadio, sono talmente concentrati che alcuni (Suarez su tutti) negano perfino le strette di mano ai bambini che sperano d'incrociare con uno sguardo i propri idoli. Diverse le seconde linee in primo piano: Ernesto Valverde vuol testare alcuni giovani e quale palcoscenico migliore di San Siro per regalare a un prodotto della cantera un'opportunità unica. In campo i blaugrana sono ordinati: Antoine Griezmann (che ha un brutto ricordo del Meazza, per quella traversa) si limita a giocare da cinque e mezzo; Ivan Rakitic indossa la fascia da capitano e, visti i recenti precedenti, non gli par vero; Arturo Vidal compie i soliti ghirigori in mezzo al terreno di gioco, con quella cresta che qualche ora prima è stata ritoccata dal suo parrucchiere di fiducia, che l'ha raggiunto in hotel. Sarà proprio la spensieratezza ad aver giovato al Barça? Chissà. Fatto sta che l'Inter, sotto pressione, ha inseguito la vittoria con capovolgimenti di fronte a rampazzo. Gli ospiti, invece, si sono limitati a mettere in atto la propria filosofia di gioco. Con un briciolo di ragione e di concentrazione. Lodevole la marcatura siglata da Ansu Fati, valevole per il 2-1 che taglia le gambe alla squadra di Conte (Marcelo Brozovic anziché seguirlo allarga le braccia, e il classe 2002 segna): Salvatore Esposito, suo coetaneo, può soltanto ammirare.
Era quasi un Barcellona B, e l'Inter in casa ci ha perso contro. Anche la Beneamata era lacerata dalle assenze, ma si giocava la partita della vita. Che, ancora una volta (memoria va allo psicodramma Psv Eindhoven), non è stata vinta. Così è il calcio: un perpetuo dualismo tra cadute e risalite. A Firenze l'opportunità per dimostrare che l'attaccamento alla maglia, quello no, l'Internazionale di Antonio Conte non lo metterà mai da parte.
Autore: Andrea Pontone / Twitter: @_AndreaPontone
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